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Perché le Università italiane attirano pochi studenti stranieri…

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corsi in inglese, rette e ranking

Perché le Università italiane attirano pochi studenti stranieri (anche dopo Brexit)

Belpaese, sì. Ma non quanto basta per sceglierlo all'università. Secondo gli ultimi dati Miur a disposizione, negli atenei italiani si contavano 70.339 iscritti stranieri nel 2014-2015: un quarto dei 271.399 della Francia, un terzo dei 206.986 della Germania e appena 13mila in più dei Paesi Bassi, aumentati oltre quota 57.500 nonostante le ovvie differenze di popolazione. Il bilancio è in crescita rispetto ai poco più di 30mila registrati nel 2003, ma resta lontano dai target che si sono posti da tempo i nostri vicini di casa europei. Soprattutto ora, con i contraccolpi della Brexit e la possibilità di intercettare il flusso di studenti spaventati dal rincaro delle rette nei college anglosassoni. Uno studio dell'agenzia di promozione London&Partner ha evidenziato come gli studenti internazionali generino un “tesoretto” di 3 miliardi di sterline l'anno in entrate alla sola Londra. Una cifra che potrebbe riversarsi al di fuori della City, in compagnia di un fattore che va oltre la contabilità pura: il capitale umano di talenti che studiano, si laureano e restano a lavorare nel Paese che li ha formati. Ma quali sono i freni all'appeal dei nostri atenei?

I nodi: poche lauree in inglese e rette elevate
Quando si parla degli handicap nell'attrattività dei nostri istituti, gli indiziati più comuni sono due: la scarsità di programmi in lingua inglese e un costo medio delle rette più elevato di quelli fissati nel resto d'Europa, dalla Francia alla Scandinavia. Nel dettaglio? Il portale Universitaly stima un totale di 245 corsi universitari in lingua inglese in 52 atenei , con il predominio degli atenei che si rivolgono di più a matricole ed exchange students internazionali: più di 20 solo al Politecnico di Milano, 18 all'Università degli studi di Bologna e 8 alla Bocconi, senza contare l'offerta di master e corsi post lauream. Numeri in ascesa, ma ancora indietro rispetto ai 700 programmi in lingua inglese della sola (e più piccola) Danimarca, i 1.262 della Francia e gli 1.801 della Germania. Anche più sfavorevole, in proporzione, il confronto sui costi. La media delle tasse universitarie previste in Italia viaggia poco sopra i 1000 euro. Una cifra imparagonabile alle rette stellari delle università britanniche, ma comunque ben al di sopra della cifra tonda richiesta nei Paesi già citati sopra: zero. In Danimarca, come anche in Svezia e Finlandia, gli studenti Ue possono iscriversi gratuitamente ai corsi di laurea triennali (bachelor) e magistrali (master). In Francia le tasse per un corso triennale in un ateneo pubblico viaggiano su una media di 190 euro l'anno, in Germania sono state abolite le rette per le lauree di primo livello e – se si è frequentato il triennio nella stessa università – anche per i master.

Scagliarini (Unibo): non basta “tradurre” i corsi, serve una regia
Insomma: basterebbe aumentare l'offerta di corsi in inglese e diminuire i costi di ingresso, sulla scia di quanto è stato fatto in Germania? Alessandra Scagliarini, prorettore alle Relazioni internazionali dell'Università di Bologna, invita a non cadere nella semplificazione di un rapporto diretto tra corsi in inglese ed internazionalità. «Non basta tradurre un corso in lingua inglese per renderlo “internazionale” ed ugualmente efficace. Il metodo d'insegnamento anglosassone è differente dal nostro, i docenti necessitano quindi di un fattivo supporto e le strutture di risorse dedicate all'internazionalizzazione dei corsi – dice Scagliarini - Probabilmente non tutti gli atenei sono in grado di mettere in campo queste risorse in periodo di importanti tagli al fondo di funzionamento e al turn over». Lo stesso confronto fra tasse universitarie incide, ma fino a un certo punto: i Paesi Bassi stanno facendo il pieno di studenti tedeschi (e britannici), a dispetto di rette per una media di 1.900 euro. È chiaro che offrire bachelor o master a costo zero aiuta, ma il processo è più radicato: Francia e Germania lavorano, con una regia statale, alla promozione dei propri atenei e e prima ancora dell'educazione linguistica di – potenziali – matricole straniere. Daad (Deutscher Akademischer Austauschdienst) e Campus France, le agenzie di promozione delle università tedesche e francesi, forniscono una robusa rete di supporto per la visibilità internazionale dei propri centri universitari. «Bisogna inoltre riconoscere a Germania e Francia il lavoro capillare e strategico, a livello internazionale, realizzato da organizzazioni come Daad e Campus France per attività di orientamento e reclutamento, ma anche per la diffusione e la promozione della lingua nazionale attraverso Goethe Institut e Alliance Française. In questo l'Italia parte molto svantaggiata, non potendo giovarsi di organizzazioni così strutturate e riconosciute a livello ministeriale».

C'è chi punta il dito sui ranking, come quelli pubblicati da Times Higher Education e Qs. Le italiane faticano a brillare in graduatorie calibrate su finanziamenti o totale di pubblicazioni scientifiche, con la conseguenza di una minore visibilità rispetto agli istituti stabili nella top 100 o top 200 degli atenei più blasonati. Anche qui, però, Scagliarini è scettica: le classifiche incidono e non vanno sottovalutate, ma gli atenei possono farsi conoscere da studenti attraverso il più influente dei canali. Il web: «Da questo punto di vista le informazioni acquisite on line sembrano essere uno dei canali più importanti per ottenere informazioni utili ad orientare le scelte. Esistono delle università che per prestigio non risentono molto dei ranking».

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