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«Usciti dal disastro, vogliamo ripartire»

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l’impatto sulle aziende

«Usciti dal disastro, vogliamo ripartire»

Alessandro  Di Majo
Alessandro Di Majo

Alessandro Di Majo ha dormito pochissimo negli ultimi giorni. «La normalità è una grande cosa» riflette a voce alta mentre racconta la storia della sua azienda di bio fertilizzanti a meno di tre chilometri del centro abitato di Arquata del Tronto, il versante marchigiano di questa catastrofe. Lui e il fratello Roberto, entrambi milanesi, figli di un napoletano e una altoatesina, sono proprietari di un’azienda di bio fertilizzanti, la Unimer Spa, con due poli produttivi: uno a Vidor, vicino Conegliano, in piena zona del Prosecco veneto; l’altro ad Arquata del Tronto, all’incrocio tra Marche, Abruzzo, Lazio e Umbria, annesso nell’88 quando l’Intervento straordinario del Mezzogiorno prevedeva per quest’area del Paese finanziamenti a fondo perduto e fiscalità di vantaggio.

I di Majo sono i pionieri dei biofertilizzanti, e negli anni settanta cominciano la loro avventura importando farina di alghe dalla Francia per uso agricolo: «Ci prendevano per matti, al massimo per due sognatori» racconta Alessandro. Allora erano prodotti di nicchia, sul quale ha sempre pesato in modo rilevante il costo del trasporto. Ecco perché la scelta di due impianti produttivi da una trentina di dipendenti l’uno in due parti diverse del Paese, con il quartier generale a Milano e un fatturato di 15 milioni di euro. Una scelta imprenditoriale che con il passare degli anni si è rivelata lungimirante sia per la dislocazione geografica, sia per la scelta dei prodotti: «Noi nutriamo le piante, non fertilizziamo il terreno. I prodotti organici e organo minerali erano lo zero virgola trent’anni fa e ora costituiscono un terzo del mercato» ci tiene a precisare Di Majo.

L’impianto veneto e quello marchigiano girano in parallelo fino alla notte del 24 agosto. La fabbrica di Arquata rilevata nell’88, un ettaro coperto su un totale di sette ettari, per fortuna è antisismica, ma la botta che ha sbriciolato il cuore degli Appennini è talmente forte che prima i vigili del fuoco, poi il genio civile prendono tempo per verificare l’agibilità della struttura. Uno stand by che potrebbe durare qualche settimana.

Di Majo racconta: «La cosa più importante è che i nostri dipendenti e le loro famiglie siano usciti indenni dal disastro. Ci hanno raccontato scene da incubo, con fughe drammatiche dalle finestre. Forse uno solo ha avuto un lutto in famiglia. Per i danni alle loro abitazioni ci daremo da fare. E sicuramente non ci tireremo indietro per altre necessità».

Nell’attesa che il genio civile esplori tutti gli angoli dell’impianto, ci penserà la fabbrica di Vidor a supplire alla fermata temporanea di Arquata. Di Majo è impaziente: «Riportare i nostri ragazzi in fabbrica credo sia terapeutico. Tutti vogliamo dimenticare il più presto possibile quello che è successo. Molti di loro sono con noi da oltre vent’anni. È gente attaccata al lavoro, e non vede l’ora di riaccendere le macchine».

Quello attuale, peraltro, è un momento di transizione per la Unimer, un acronimo che significa mercato europeo («mio padre era un europeista ante litteram» confessa l’imprenditore): c’è la ricerca sui nuovi prodotti e c’è l’investimento per esplorare i mercati dell’est europeo. La Unimer non è l’unica fabbrica di Arquata. Nella zona industriale sono presenti anche un’azienda alimentare (funghi secchi sott’olio) e una falegnameria. Un piccolo nucleo che vuole riprendere lì dove si è fermato. Di Majo è determinato nei suoi propositi: «Qualsiasi cosa ci dirà il genio civile, noi non molliamo: sembra un hashtag, ma è semplice spirito imprenditoriale».

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