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Addio a Ermanno Rea, lo scrittore che ha dato la parola alla…

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lutto nella letteratura

Addio a Ermanno Rea, lo scrittore che ha dato la parola alla «dismissione»

Ermanno Rea (Ansa)
Ermanno Rea (Ansa)

Possiamo ricordare Ermanno Rea per aver vinto il Premio Campiello con Fuochi fiammanti a un’hora di notte (1998) e il Premio Viareggio con Mistero napoletano (1995), ma credo di non esagerare se dico che il più importante dei suoi libri sia La dismissione, uscito nel 2002 e subito diventato un romanzo-archetipo: a partire dal titolo, infatti, l’intera stagione che va dalla fine del Novecento agli inizi del millennio è ormai passata alla storia come «età della dismissione». Con questo libro-poema Rea si consegna a noi suoi lettori come il cantore di un’epoca a cui tutti pensiamo in termini favolosi e anche con un certo rimpianto.

Un affascinante universo di macchine
Il mondo delle fabbriche, il grande, affascinante universo di macchine multifunzioni che nel Novecento hanno interpretato l’idea della modernità, Rea ce lo ha rappresentato nella sua parabola discendente, ma ci ha dato una visione epica e dolente, dai caratteri segnati da quella nostalgia che si prova quando stanno per spegnersi le luci su un universo solenne e tutti, nessuno escluso, ha la certezza che si chiuda per sempre una stagione dai risvolti contraddittori, ma pur sempre felici. Grazie a Rea abbiamo accompagnato le fabbriche e gli operai durante la loro fase di estinzione, ben consapevoli che non è sparito il paradigma del lavoro, non si sono estinte le tute blu e le ciminiere. È finito un certo sguardo su di essi, si è modificata nella nostra percezione una materia che sapeva di smog, di rumori, di petrolio, di catene di montaggio. Il lungo parlare di Vincenzo Buonocore (l’operaio personaggio del romanzo) conserva il timbro da aedo, lo stesso che abbiamo sentito sulle labbra di un altro suo collega, Tino Faussone della Chiave a stella di Primo Levi (1978).

Una condizione anomala rispetto agli stereotipi
La sua filosofia, il suo sguardo sono il portato di una condizione anomala rispetto agli stereotipi di un meridionalismo fatalismo e immobilista, sono espressione di una consapevolezza che non ha più l’entusiasmo degli anni Cinquanta e Sessanta, ma conserva la dolcezza verso un’esperienza - quella della fabbrica - che ha radicalmente mutato le condizioni antropologiche di un popolo, ha disegnato un futuro nell’orizzonte di una comunità che solo pochi decenni prima aveva infruttuosamente lottato per entrare nel giardino incantato delle industrie Olivetti, a Pozzuoli. Mi riferisco ad Antonio Donnarumma, il personaggio del romanzo di Ottiero Ottieri (Donnarumma all’assalto, 1959), che sta quasi a contraltare rispetto a Vincenzo Buonocore.

Il destino post-industriale
È destino che anche il Mezzogiorno industriale (oltre al più consueto Mezzogiorno contadino) venga raccontato in forma anomala e spesso non sempre accreditato nei parametri di un capitalismo consolidato. Penso certo a Ottieri, ma anche a Carlo Bernari che in Era l’anno del sole quieto (1964) narra di un infranto sul nascere: quello di un’azienda chimica dalle parti di Salerno. In nessuno di questi libri avverrà il miracolo di un Sud definitivamente agli antipodi rispetto allo stereotipo contadino.

È con Ermanno Rea, però, che il lavoro operaio ottiene la sua dignità, anche quando se ne celebra l’epilogo e della grande impresa che è stata l’Ilva di Bagnoli rimane l’odore della polvere rimasta in aria dopo il crollo della torre piezometrica, l’ultimo avamposto abbattuto di quella che era stata chiamata «la vecchia ferriera». Da quella polvere esce fuori il canto dell’Internazionale: una musica sacra, un inno per una moltitudine che ha creduto, come in un’utopia, nei miraggi della modernità.

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