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Pensioni, il vero costo della flessibilità

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L'Analisi|iL FOCUS

Pensioni, il vero costo della flessibilità

Come è sempre accaduto, quando si sono cambiate le regole della previdenza le mille contraddizioni del nostro sistema di welfare sono venute a galla tutte insieme. Pensionati con trattamenti bassi e a rischio povertà, lavoratori senior rimasti senza contratto e senza ammortizzatore sociale pure a rischio povertà, aziende (e pubbliche amministrazioni) non più in grado di effettuare rinnovi generazionali del personale, un mercato del lavoro costantemente lontano da equilibri “ottimali”.

Anche questa volta andrà così, o almeno come negli ultimi sei interventi legislativi varati dopo la riforma del 1995. Per ragioni di finanza pubblica e di cultura politica anche le soluzioni adottate per il 2017 rientreranno nel campo che gli economisti chiamano “second best”. Misure di compromesso, ideate e ingegnerizzate per soddisfare esigenze diverse in un contesto di spesa previdenziale stabilizzata sì, ma sui massimi dell'area Ue 28. La nostra spesa per pensioni sarà sopra il 15% del Pil nel 2020 contro l'11,2% medio europeo, secondo le stime Ocse, le più solide quando si guarda alle comparazioni al di là del dibattito nostrano sulla separazione tra spesa per assistenza e previdenza. E vent'anni dopo, nel 2040 sarà al 15,8%, contro l'11,7% dell'Ue.

La gobba della spesa terrà grazie alle correzioni adottate dopo la riforma Dini (quella del 2011 di Elsa Fornero, in particolare, fa da sola un terzo di tutti i risparmi stimati nel medio termine). E grazie a questa tenuta i conti non salteranno, secondo le previsioni, anche con il pensionamento nei prossimi 10-15 anni delle popolose generazioni del baby boom. Ma attenzione, quel 15% lo teniamo solo se nel frattempo il mercato del lavoro torna a espandersi, con tassi di partecipazione e di occupazione (non solo di giovani ma anche di over 55 e donne) più allineati alle medie continentali. Impresa non scontata se si tiene conto anche dell'impatto demografico, con la previsione che da qui al 2050 la popolazione in età attiva (20-65 anni) in Italia calerebbe del 31,4%, da 35 a 24 milioni di individui nello scenario a migrazione nulla delle Nazioni Unite.

Pensioni, tutte le novità allo studio del Governo


Dal 2008 la società italiana è entrata in una fase di denatalità strutturale che rilancia la domanda tragica: in un sistema a ripartizione chi pagherà le pensioni di domani? Come ha spiegato in un recente convegno Antonietta Mundo, ex capo degli attuari Inps, sono sempre meno numerose le donne in età feconda (15-49 anni) e tendono a fare figli sempre più tardi (le baby boomers sono ormai cinquantenni). Le donne tra i 15 e i 30 anni (nate tra il 1985 e il 2000) sono poco più della metà (4,9 milioni) delle donne con più di 30 anni (nate tra il 1966 e il 1984), pari a 8,5 milioni. Mentre le donne future adulte, che oggi hanno meno di 15 anni, sono solo 4,1 milioni, 800mila in meno! Se anche tutte lavorassero a lungo come potranno pagare con i loro contributi le pensioni delle loro madri?
È solo in questa difficile prospettiva che devono essere lette (e soppesate) le nuove misure del Governo.

Soffermiamoci, in particolare, sulla flessibilità targata Ape. Avrà un costo, per chi la sceglierà volontariamente, che va oltre la spesa complessiva di rimborso ventennale dell'anticipo bancario assicurato. Chi anticipa l'uscita perde quello che invece guadagna chi decide di continuare a lavorare. Chi non versa più contributi sul suo “conto nozionale” ferma il montante, ovvero la base di calcolo della sua pensione futura. I conti ufficiali li farà l’Inps al momento giusto, quando i diretti interessati andranno a verificare l’offerta nella sua concretezza ma è chiaro che perdere da 1 a 3,7 anni di lavoro riduce la pensione.

A questo “guadagno perduto” si sommerà poi il costo del rimborso, che potrebbe essere abbattuto con la rendita integrativa temporanea anticipata (Rita) se il lavoratore ha aderito a un fondo negoziale. Ma anche in questo caso l’anticipo (sia pure tassato al 15%) andrebbe confrontato con il valore perduto di una rendita complementare che accompagni la pensione di base per venti anni e negli anni successivi, viste le speranze di vita (80 anni per i maschi e 85 per le femmine).

Alla quasi-gratuità dell’Ape social destinata ai soggetti più in difficoltà (forse un costo ci sarà sopra la soglia dei 1.500 euro lordi di pensione a regime) corrisponde invece la spesa certa per lo Stato: 5-600 milioni l’anno per venti anni. Anche in questo caso fare due conti non è difficile. Mentre sull’Ape a carico delle aziende in ristrutturazione vale la pena rinviare le analisi a quando sarà fatti i primi accordi sindacali per il suo concreto utilizzo.

Sono, lo dicevamo, scelte di “second best”. E l’Ape sicuramente verrà criticata come insufficiente nella sua triplice versione e sicuramente il tentativo parlamentare di portare a casa un'ottava salvaguardia per altri 25mila “esodati” andrà avanti anche dopo il referendum costituzionale. Tutto si può fare in democrazia. Quando si toccano le pensioni sarebbe però opportuno non dimenticare dove è arrivata la nostra spesa e dove resterà per anni, secondo le stime più ottimistiche, accreditate dalla nostra Ragioneria generale e dalle organizzazioni internazionali.

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