Non è tanto quello che fai, quanto come lo fai. Vale nella vita, in musica e in economia aziendale. Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti - per alcuni maestro di vita, per tantissimi genio della musica, indiscutibilmente case history d’impresa di successo – qui in Italia è l’incarnazione stessa del concetto.
Tiene il mercato da qualcosa come 30 anni, dopo aver più volte «diversificato la produzione», incontrando praticamente sempre il favore del pubblico. A prescindere dalla tipologia di prodotto che immette sul mercato. Nel giorno in cui compie 50 anni d’età e tutto l’arco costituzionale dell’italica editoria lo celebra, abbiamo scelto di interpretare la sua parabola proprio come fenomeno economico. Perché i marchi di tendenza esplosi alla fine degli anni Ottanta e ancora capaci di esercitare magnetica fascinazione sul pubblico sono davvero pochi.
Un marchio che vuol dire «giovani»
Ma come nasce il marchio Jovanotti? Nella migliore tradizione italiana, gli esordi di Lorenzo nel mondo dello show-biz avvengono nel segno del «capitalismo di relazione». Figlio di un membro del corpo della gendarmeria vaticana, poco più che adolescente si fa le ossa come dj tra radio locali e discoteche di provincia. Lo intercetta Claudio Cecchetto, all’epoca king-maker delle più influenti tendenze giovanilistiche, e lo spedisce a lavorare tra Radio Deejay e Deejay Television. È il big bang: appena ventenne, con il cappellino da baseball griffato Boy e un abbigliamento che riprende quello dei rapper americani della prima ondata, diventa un’icona dell’immaginario televisivo dell’Italia da bere. Ha un brand efficacissimo che suona italiano quanto internazionale: Jovanotti. Con quel nome si mette a fare pure dischi. Il genere è rap, ma non ha niente a che fare con la rabbia da strada di molti colleghi americani: in «Gimme Five» e «Go Jovanotti go» canta in un grammelot americanizzante, tipo la «Prisencolinensinaiciusol» di Adriano Celentano. Ed è un successo da oltre 400mila copie vendute.
Il fenomeno di costume giunge alla consacrazione con il quinto posto a Sanremo del 1989 (svolta italiana con «Vasco»), l’annesso secondo album «La mia moto» (scherzo da altre 600mila copie) e il culto che si struttura attraverso il lancio di specifiche linee di merchandising griffate Jovanotti. Come lui nessuno mai, almeno qui da noi. Farà in tempo a partecipare alla penultima edizione del «Fantastico» di Pippo Baudo (è l’autunno del ’90), prima che la prima fase della sua parabola entri in crisi con l’album «Giovani Jovanotti». Una sola hit per quello che sembrava un prodotto maturo: «Ciao Mamma». Ma, quando il prodotto è maturo, certe volte non c’è niente di meglio di un rebranding.
Il «rebranding» di Lorenzo
Poteva essere finito, ma aveva ancora qualche carta da giocarsi. E dopo aver fatto le prove generali portando tra i primissimi il rap in lingua italiana all’interno del perimetro mainstream («Una tribù che balla», 1991), diventa Lorenzo (1992) e da quel preciso momento non sbaglia un colpo. Fonda Soleluna (1994), un’etichetta discografica tutta sua, meglio ancora: una factory per dare forma concreta alle sue intuizioni artistiche, con una squadra di collaboratori di primissimo piano. È artista impegnato e autore di libri, membro del ristrettissimo club dei cantanti italiani capaci di riempire gli stadi e di quello, ancora più esclusivo, dei musicisti di casa nostra che a un certo punto catturano l’attenzione dei media in lingua inglese. Tutto quello che tocca diventa oro. A prescindere dalla tipologia di prodotto che immette sul mercato e, in alcuni casi, anche della «qualità di fabbricazione». Perché Lorenzo, da 30 anni a questa parte, sembra quasi stare qui per ricordarcelo: non è tanto quello che fa, quanto come lo fa.
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