Venerdì 4 novembre 1966 avevo 5 anni. Era un giorno di vacanza perché c'era la Festa della Vittoria.
Ho pochi ricordi sfumati dell'alluvione. Ricordi deformati dal bianco-e-nero della memoria.
Venezia era silenziosa, più silenziosa del solito. Nessun passo ritmato nei campielli o nelle calli. Voci solamente, ma agitate. Odore intenso di cherosene. Cielo grigio. Grigio sopra nel cielo e grigio sotto, verso il basso: aperti gli scuri della finesta, il campiello a margine della calle delle Erbe era coperto d'acqua su cui galleggiava la patina nera della nafta. Non l'avevo mai visto così. Termosifoni freddi. Non c'era corrente. Con mio padre (com'era grande e sicuro) scendemmo la scala verso l'androne del pianterreno: l'acqua era così alta che arrivava a coprire forse i primi 20 gradini della scala.
La luce grigia entrava dalla porta d'acqua sul rio di Santa Marina. Il ritmo del diesel di un barcone sul canale. L'aqua era alta il doppio della mia altezza, ed erano inutili i miei stivaletti di gomma nera da calzare per andare a scuola nei giorni di acqua alta. I ricordi si completano con il vago sapore della vacanza forzata nei giorni successivi, forse lunedì 7 novembre la maestra Iole chiese di aiutare i compagni di classe che avevano perso tutto perché abitavano al pian terreno, e soprattutto la riga nera della nafta rimasta per mesi sui muri, altezza 1 metro e 97 centimetri.
L'alluvione di Venezia e Firenze del 4 novembre 1966 aveva avuto due caratteri diversi nelle due città. A Firenze aveva avuto la brutalità del fiume rabbioso, del fango che strappa. A Venezia l'acqua e l'amor «i copa in silensio», uccidono in silenzio, e lì Venezia cominciò a morire. Il centro storico aveva 150mila abitanti, ora circa 50mila; c'era la sede delle Generali (oggi a Trieste), del quotidiano Il Gazzettino (ora a Mestre), della compagnia di navigazione Adriatica, della fabbrica metalmeccanica Junghans e così via. Oggi Venezia è soprattutto un turistificio.
Torno al novembre 1966. Quel salire lento dell'acqua sembrava, la sera del 3 novembre, quello solito dei cicli di marea. Sei ore cala e sei ore cresce. Ma quella notte la marea crescente non si era fermata, e la mattina del 4 novembre continuava a crescere, e la marea calante di dozana non c'era stata e invece di calare l'acqua aveva continuato a salire, salire, salire.
Ai margini della laguna erano accadute molte cose. La terraferma rovesciava in laguna onde di fiumi in rotta. Gli argini antichi erano strappati, sconvolti, dissolti, trasformati in mota incoerente, e vomitavano fango e acqua dentro alla laguna. Dalla parte opposta, dal lato del mare, la tempesta furiosa spingeva contro le isole, e il mare furioso aveva rotto le muraglie settecentesche e si rovesciava in laguna. Case distrutte sulla sottile lingua di terra di Pellestrina, che è una cittadina costruita sul nastro lunghissimo e sottile di una duna di sabbia nell’acqua.
Quell’alluvione del 4 novembre 1966 fece scoprire che Venezia sprofondava davvero. Nascquero i comitati come Save Venice, fu creata la Legge Speciale per Venezia con il Comitatone, cioè il Comitato interministeriale per la Salvaguardia di Venezia. Furono fermate le grandi opere nella laguna — l’ultima grande opera fu il canale dei petroli, che aprì la strada alle petroliere e alle acque alte — e la città fu messa sotto una campana di vetro protettiva le cui pareti erano il Mose.
Oggi il Mose è quasi finito, le dighe contro l’acqua alta sono quasi pronte, un paio d’anni per avere queste difese. Il Mose potrà servire per salvare la città dal cambiamento del clima che farà alzare i mari; nel 1966 non era immaginabile questo fenomeno, si pensava al contrario a una glaciazione imminente.
Due terzi degli abitanti hanno lasciato la laguna. Fra questi, anche io. E l’odore di salso che a volte la bora porta fin qui, fino in terraferma profonda, sviluppa un dolore acuto in mezzo al petto.
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