È solo un primo passo. Ma va nella direzione giusta. È quel che si deve dire della riforma costituzionale Renzi-Boschi se la consideriamo – pochi purtroppo lo fanno – nel contesto delle grandi trasformazioni che il mondo sta subendo: globalizzazione, rivoluzione digitale e tecnologica, climate change, terrorismo globale, rischio di stagnazione secolare, migrazioni di massa. Di fronte a questi cambiamenti, per tutte le democrazie liberali si pone il problema dell’ammodernamento dei loro sistemi istituzionali e dei loro processi di decisione. Molti di questi sistemi sono stati costruiti quando di questi cambiamenti non vi era neppure sentore: sconosciute erano perfino le parole con le quali oggi li designiamo (salvo le migrazioni di massa, che però andavano dall’Europa verso le Americhe).
Per affrontare questi cambiamenti, per vincere queste sfide occorrono istituzioni agili e processi decisionali rapidi. Occorrono anche livelli di governo adeguati. Adeguati alle dimensioni e alla complessità dei mercati economici e finanziari globali; e capaci di imporre regole ai grandi player finanziari e industriali che nel mondo globale operano. È molto elevato altrimenti il rischio di una migrazione incontrollabile dei poteri di decisione dalle istituzioni democratiche verso queste entità non rappresentative, non responsabili, spesso opache. Si è cercata una risposta a questo rischio affidando crescenti poteri a organizzazioni internazionali o sopranazionali; per tentare (non sempre con successo) di riportare nelle mani di istituzioni democratiche condivise almeno una parte dei poteri sovrani, di fatto espropriati dalle grandi banche d’affari, dalle agenzie di rating, dalle grandi industrie multinazionali. Cedere sovranità nazionale per condividerla a livello europeo o internazionale. Lo si è fatto per la regolazione delle attività economiche e finanziarie, lo si cerca di fare per combattere il terrorismo, per governare le grandi migrazioni, per affrontare il cambiamento climatico e la transizione energetica. Ma ciascun Paese può trarne vantaggio se in questi organismi sopranazionali i suoi interessi sono ben rappresentati. E qui la stabilità e l’autorevolezza dei governi nazionali contano molto: se il capo del governo e i ministri cambiano tutti gli anni, è difficile farsi ascoltare e stabilire quei rapporti di fiducia e familiarità che spesso in quelle sedi sono decisivi.
L’ammodernamento delle istituzioni è per ciò un problema cruciale per tutti. Ma lo è in modo speciale per l’Italia. Settant’anni non sono tanti per una Costituzione, ma il mondo è cambiato in questi anni ad una velocità inedita. La prima parte della Costituzione resta valida, ma l’organizzazione dello Stato e i processi di decisione richiedono aggiornamenti radicali. Sono stati scritti per un mondo molto diverso; furono dominati dalla preoccupazione di un ritorno a regimi autoritari; e mancavano le garanzie che oggi derivano dalla nostra appartenenza all’Unione europea.
Unici al mondo, abbiamo un governo parlamentare che dipende dalla fiducia di due Camere, elette con sistemi elettorali diversi. Il rischio di instabilità politica è insito in questa anomalia. Governi instabili non hanno il tempo che serve per definire, far approvare e attuare riforme strutturali e politiche pubbliche di lungo termine. Né hanno la continuità per rappresentare efficacemente gli interessi del Paese negli organi europei e internazionali. La riforma elimina questa anomalia. Se non dovesse superare la prova del referendum, è molto improbabile che si possa poi trovare di nuovo un Senato disposto a votare l’amputazione del potere, che oggi ha, di condizionare la vita dei governi.
Anche la navetta delle leggi fra Camera e Senato e la necessità in settori strategici di negoziare ogni decisione fra lo Stato e venti Regioni, rendono oggi arduo reagire tempestivamente, con adeguati provvedimenti, alle emergenze e alle crisi che caratterizzano il mondo globalizzato e interconnesso. Nel '29, la grande crisi americana impattò sulle economie europee solo dopo un anno e mezzo; oggi, il fallimento di una banca sistemica a New York esige l’adozione in Europa di immediate contromisure; altrimenti, altri decideranno per noi, non nel nostro interesse. Non possiamo dunque più permetterci il bicameralismo paritario, né la confusa sovrapposizione di competenze fra Stato e Regioni prevista dal Titolo V del 2001.
Su queste questioni cruciali, la riforma dà risposte convincenti. Così come le dà su altre questioni, come i limiti all’abuso della decretazione d’urgenza (compensati dal potere del Governo di ottenere sulle sue proposte una decisione parlamentare entro una data certa); e come il potere delle opposizioni di impugnare di fronte alla Corte le leggi elettorali (non avremo più Parlamenti eletti con leggi elettorali poi dichiarate incostituzionali). Diverse disposizioni potevano, certo, essere scritte meglio, altre risentono degli inevitabili compromessi parlamentari. Ma le scelte di fondo sono giuste. E sui dettagli si potrà tornare più facilmente se le scelte di fondo saranno state definitivamente approvate.
Bastano le innovazioni introdotte dalla riforma costituzionale Renzi-Boschi per attrezzare la nostra democrazia a affrontare i grandi problemi del XXI secolo? Penso di no. Ma proprio per questo il treno delle riforme non deve essere fermato. Le grandi riforme si fanno un passo dopo l’altro.
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