
«Mi avrebbero schiacciato», «non ho sputtanato nessuno», «hanno pagato il mio silenzio». Le intercettazioni sull’ex giudice di pace di Roma, Stefania Lavore, aprono interrogativi sui presunti mandanti del sequestro e del rimpatrio forzato di Alma Shalabayeva, la moglie di Muhtar Ablyazov, il dissidente kazako fortemente contrario al governo di Nazarbaev e titolare dello status di rifugiato politico nel Regno Unito. Per questi fatti, consumatisi a maggio del 2013, rischiano il processo il magistrato e sette poliziotti. Tuttavia gli atti dell'inchiesta aprono interrogativi sul presunto ruolo che avrebbe avuto anche la politica italiana.
Avviso di chiusura delle indagini
La Procura di Perugia ha notificato l'avviso di chiusura della indagini preliminari a Renato Cortese, allora capo della squadra mobile di Roma e attuale capo del Servizio centrale operativo della polizia; Francesco Stampacchia, ex commissario capo della squadra mobile di Roma; Maurizio Improta, ex dirigente dell'ufficio Immigrazione e attuale questore di Rimini; gli ex assistenti della polizia in servizio all'ufficio Immigrazione Vincenzo Tramma, Stefano Leoni e Luara Scipioni; Luca Armeni, ex dirigente della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Roma; l'ex giudice di pace Stefania Lavore. Nei loro confronti sono ipotizzati, a vario titolo e secondo le singole posizioni, i reati di sequestro di persona, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale e frode nel farsi rilasciare certificati del casellario giudiziale e uso indebito di tali certificati.
Le pressioni
Stando all'accusa, come formulata dalla Procura di Perugia, i diplomatici kazaki Adrian Yelemessov, Nurlan Khassen e Yerzhan Yessirkepov avrebbero compiuto pressioni - nel periodo in cui era già ministro dell'Interno Angelino Alfano - sull'«autorità di polizia italiana», al fine di «privare la libertà personale di Alma Shalabayeva e la minore A.A. di anni 6, rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov (ricercato ai fini estradizionali per il Kazakistan e dissidente del regime kazako con status di rifugiato politico riconosciuto il 7 luglio 2011 dal Regno Unito)». Successivamente la polizia ha consegnato le due donne ai tre diplomatici kazaki all'aeroporto di Ciampiano, dove sono state imbarcate su un aereo per il rimpatrio. Questo anche se in più occasioni la Shalabayeva ha chiesto asilo politico all'Italia e sottolineato come il marito fosse già un rifugiato in Inghilterra.
Una regia più alta
Nelle pieghe degli atti d'indagine, però, spuntano particolari che farebbero ipotizzare a un livello più alto, nell'organizzazione del sequestro e del rimpatrio della Shalabayeva. Gli inquirenti hanno messo sotto intercettazione l'allora giudice di pace a Roma Stefania Lavore. Dalle conversazioni emerge in modo chiaro come il magistrato fosse perfettamente a conoscenza che la convalida del trattenimento, che era stata chiamata a fare in un'udienza, fosse un «passaggio essenziale della traduzione forzata» della Shalabayeva. Così, in alcune conversazioni afferma che «mi avrebbero schiacciato ho fatto pippa», «non ho sputtanato nessuno» e «hanno pagato il mio silenzio», facendo presunto riferimento a una regia di più alto livello.
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