Nel confronto scontro sulla riforma costituzionale finiscono anche il Capo dello Stato e i giudici della Corte costituzionale. Il testo attuale della Carta prevede per entrambe le fattispecie che in occasione dell’elezione per il Quirinale così come per la Consulta il Parlamento decida in seduta comune. In particolare per quanto concerne la scelta del Presidente della Repubblica oggi l’articolo 83 prevede anche la partecipazione di tre delegati regionali per regione che invece la nuova costituzione esclude in quanto il loro ruolo è assorbito dal Senato delle regioni. Viene rivisto anche il quorum per l’elezione. Attualmente è richiesto nei primi tre scrutini il raggiungimento della maggioranza dei due terzi dell’assemblea mentre dopo il terzo è sufficiente la maggioranza assoluta. Finora tutti i Capi dello Stato - ad eccezione di De Nicola, Cossiga e Ciampi - sono stati eletti a partire dal quarto scrutinio, ciò non ha comunque precluso il raggiungimento di maggioranze ampie (ad esempio l’elezione di Sandro Pertini al 16° scrutinio avvenne con oltre l’82% dei consensi, 832 voti su 1011). Il nuovo articolo 83 conferma solo in parte questa procedura. Resta infatti il quorum dei due terzi per i primi tre scrutini ma a partire dal quarto si dovrà raggiungere la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea (438 membri pari al 60%) e non più solo la maggioranza assoluta mentre dalla settima votazione basteranno i tre quinti dei votanti.
La riforma quindi aumenta la soglia del voto per l’elezione del Capo dello Stato. Una scelta che per i sostenitori del sì manifesta la volontà del legislatore di garantire il raggiungimento del più ampio consenso possibile per l’individuazione di colui che è chiamato a rappresentare l’unità della nazione. Opposta l’interpretazione del fronte del No, che invece contesta la modifica del quorum, in particolare la possibilità che il Capo dello Stato possa essere eletto da una maggioranza dei tre quinti di chi partecipa al voto. Per i contrari, il combinato disposto riforma costituzionale-Italicum faciliterebbe la possibilità che il partito uscito vincitore dalle elezioni possa decidere anche chi salirà al Quirinale. Questo perché la legge elettorale attribuendo alla lista vincitrice un premio di maggioranza, che le consente di arrivare alla Camera a 340 seggi, e contando sulla possibilità di avere anche una quota rilevante dei 100 senatori potrebbe avere un numero di parlamentari sufficiente per eleggere il Capo dello Stato. Un’ipotesi che però presuppone anche che almeno una parte, sia pure minoritaria, dell’opposizione non partecipi al voto, visto che comunque deve essere raggiunta la soglia dei tre quinti dei votanti. Ovviamente i sostenitori del Sì ritengono infondata questa tesi, ritenendo pressoché impossibile che l’opposizione rinunci a votare. Ma soprattutto sottolineano che è il sistema attuale a consentire l’elezione di un presidente eletto dalla sola maggioranza, visto che dal quarto scrutinio basta il 50% più uno e che, ad esempio al momento dell’elezione di Sergio Mattarella, il Pd da solo aveva già 446 voti su 1009 grandi elettori (ovvero appena 59 in meno per il raggiungimento del quorum) e la maggioranza di governo tutta poteva contare su 599 voti.
Anche sull’elezione dei componenti della Corte costituzionale le posizioni sono divergenti. Il dettato della Costituzione vigente prevede che la scelta dei 5 giudici per la Consulta di nomina parlamentare sia decisa dal Parlamento in seduta comune (gli altri 10 componenti della Corte sono per metà scelti dal Presidente della Repubblica e i restanti 5 dalla magistratura). Anche in questo caso è richiesto un quorum qualificato pari a due terzi nei primi due scrutini, che scende a tre quinti nelle successive votazioni. La riforma conferma il quorum qualificato ma separa la scelta dei giudici: tre saranno decisi dalla Camera e due dal Senato. In questo modo, secondo i critici della riforma, il rischio è che la maggioranza di governo oltre ad assicurarsi la scelta dei giudici scelti dalla Camera possa ottenere anche quelli decisi a Palazzo Madama, qualora anche in quel ramo del Parlamento avesse la maggioranza. Sul fronte opposto si sottolinea invece che l’elezione autonoma da parte del Senato di due giudici assicura a Regioni ed enti locali di poter avere all’interno della Corte esponenti sensibili al tema dell’autonomia territoriale e che in ogni caso il quorum dei tre quinti, pari al 60% dei componenti in ciascuna delle due assemblee, garantisce una scelta condivisa.
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