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Mani Pulite, una illusione che non è potuta durare

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25 anni dopo

Mani Pulite, una illusione che non è potuta durare

Antonio Di Pietro e Mario Chiesa (Ansa)
Antonio Di Pietro e Mario Chiesa (Ansa)

Quando sui muri di Milano comparvero le prime scritte «Grazie Di Pietro» fu subito chiaro che l’inchiesta Mani pulite si era trasformata in qualcosa di infinitamente più grande. Mario Chiesa era stato colto in fragrante alcune settimane prima, il 17 febbraio 1992, un lunedì, mentre intascava una tangente di 7 milioni di lire per un appalto di pulizie al Pio Albergo Trivulzio. Ma le onde sismiche di quell’arresto faticarono non poco ad affiorare in superficie. Il terremoto si scatenò soltanto un mese dopo quando, alle 10 del mattino del 23 marzo, Chiesa cominciò a rispondere alle domande di Antonio Di Pietro e del gip Italo Ghitti nel carcere di San Vittore.

Riempì 17 pagine di verbale, quella mattina Mario Chiesa. Confessò le tangenti e si vendicò di Bettino Craxi. Venti giorni prima il segretario del Psi aveva commesso un grossolano errore definendo Chiesa «un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». Qualcuno, in carcere, aveva riferito quella frase al presidente del Pio Albergo Trivulzio, che si era sentito isolato e abbandonato. Chiesa decise dunque di parlare. E Tangentopoli ebbe inizio.

Mano a mano che gli arresti si susseguivano, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo diventavano il simbolo della speranza di cambiamento espressa in quelle frasi che comparivano sempre più numerose sugli edifici di Milano.

Al quarto piano del Palazzo di giustizia, vivevamo in diretta gli effetti di quella speranza. Bivaccavamo nei corridoi. Dovevamo raccontare Tangentopoli, anche se allora - in quei giorni - non ci era ben chiara la portata di quella inchiesta. Vedevamo però, quello sì, il terrore dipinto sui volti di chi attendeva di varcare la porta dei magistrati per confessare le proprie colpe. Vedevamo, per la prima volta in quelle dimensioni, i potenti ridotti al rango di vittime.

“Fin dall’inizio l’indagine aveva preso la forma di una spirale che, seguendo i contorni di un immaginario cono rovesciato, partendo dal vertice, si estendeva e saliva”

Gherardo Colombo, «Il vizio della memoria» 

In un libro del 1996, Il vizio della memoria, Gherardo Colombo racconta che «fin dall’inizio l’indagine aveva preso la forma di una spirale che, seguendo i contorni di un immaginario cono rovesciato, partendo dal vertice, si estendeva e saliva. Da un episodio quasi banale, come ne succedono tanti - l’arresto in flagranza di un funzionario pubblico che aveva chiesto denaro a un imprenditore recalcitrante per “consentirgli” di continuare a lavorare presso l’istituto che presiedeva - Antonio (Di Pietro, ndr), all’inizio da solo, era riuscito ad avviare il meccanismo, fondato su una serie di rimandi». Ben presto la spirale si estese, crebbe a dismisura: «Ogni tanto si apriva una nuova ramificazione, ogni tanto sulla superficie del cono, appariva il vertice di una nuova figura, destinato a essere autonoma origine di un nuovo filone, che si sarebbe sviluppato come quelli già avviati».

Persone sconosciute si presentavano davanti alle porte dei magistrati del pool Mani pulite. Li vedevamo, chiedevamo chi fossero. Spesso non rispondevano, guardavano nel vuoto, pallidi, nervosi, sudati. Cosa accadesse dietro quelle porte, poi, noi non potevamo vederlo. Lo avremmo saputo solo dopo, dalla bocca di qualche avvocato o da qualche carta sfuggita ai controlli. «Queste nuove fonti erano di solito persone sconosciute - scrive ancora Colombo - che si presentavano, accompagnate dal difensore, in uno dei nostri uffici, generalmente quello di Antonio, e senza che noi sapessimo nulla di loro raccontavano, raccontavano fatti, reati, persone coinvolte, circostanze, date, passaggi di contanti, aperture di conti in Svizzera e così via».

Il meccanismo delle tangenti versate ai partiti della Prima Repubblica fu svelato così. Di Pietro la chiamò «dazione ambientale».
L'inchiesta sì consumò in meno di tre anni, dal febbraio 1992 al dicembre 1994. Nei corridoio del quarto piano le espressioni dei magistrati erano il barometro degli alti e bassi dell'indagine. A Di Pietro, Davigo e Colombo si erano aggiunti Francesco Greco, Fabio De Pasquale, Paolo Ielo, Elio Ramondini, Raffaele Tito, Margherita Taddei e Tiziana Parenti, tanti erano i filoni d’inchiesta da sviluppare, le confessioni da raccogliere, le richieste di autorizzazione a procedere da inviare in Parlamento.

Quando le pressioni politiche sul pool aumentarono d’intensità, sui volti dei magistrati cominciammo a scorgere la preoccupazione che l’inchiesta venisse bloccata. Un venerdì pomeriggio, il 23 luglio 1993, quando ormai l’indagine era partita da un anno e mezzo, un Di Pietro stravolto picchiava i pugni contro il muro. Il pool Mani pulite era sotto choc. Tra le 8,30 e le 8,45 del mattino, Raul Gardini si era sparato un colpo di pistola alla tempia, poco prima di essere arrestato. La sua morte seguiva di soli tre giorni il suicidio nel carcere di San Vittore del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari. C’era stato un altro momento di crisi nel settembre 1992. Un altro suicidio, il primo di Mani pulite, quello del parlamentare socialista Sergio Moroni. «Hanno creato un clima infame», aveva apostrofato allora Bettino Craxi, e qualcuno aveva preannunciato un “poker d’assi” contro i magistrati del pool.

Ma Francesco Saverio Borrelli, il procuratore della Repubblica, e Gerardo D'Ambrosio, il suo vice, fecero quadrato attorno al pool. Senza di loro, forse, l’inchiesta non sarebbe decollata. E così fecero anche quando Di Pietro, Colombo, Davigo e Greco si presentano davanti alle telecamere il 14 luglio 1994, dopo il colpo di spugna del decreto Biondi. Toccò a Di Pietro leggere una dichiarazione concordata tra i componenti del pool. Poche righe ma dall’effetto di una bomba: «Quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Abbiamo pertanto informato il Procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone». I magistrati minacciavano di dimettersi. Colombo lo racconta ne Il vizio della memoria. «È uno schifo, Gerardo, non si può... senti anche gli altri, io sono pronto a dimettermi, dobbiamo fare qualcosa, pensaci anche tu...», gli disse Di Pietro. Il decreto fu ritirato, l’inchiesta andò avanti. Proseguì con il processo a Sergio Cusani, con Craxi, Forlani e gli altri big della Prima Repubblica interrogati in aula da Di Pietro. E poi andò ancora più in alto, fino a Silvio Berlusconi.

Venticinque anni dopo, Francesco Greco («Greco dai tempi lunghi, il più assiduo a lavorar sulle carte, a esaminare i bilanci, a incunearsi nelle contabilità sociali per scoprirne mancanze, falsità, duplicazioni», scrive Colombo) siede nell’ufficio che fu di Francesco Saverio Borrelli. Antonio Di Pietro si è ritirato nella sua Montenero di Bisaccia dopo aver fondato un partito ed essere stato ministro. Piercamillo Davigo è presidente di sezione in Cassazione e presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Colombo ha fatto parte del cda della Rai, è coordinatore del Comitato per la legalità e la trasparenza del Comune di Milano ed è presidente degli Organismi di vigilanza della Banca Popolare di Milano e del gruppo Sole 24 Ore.

Mani pulite ha fatto cadere la Prima Repubblica ma non ha sconfitto la corruzione. L’illusione è durata lo spazio di pochi anni. Al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano gli echi di quella stagione si sono spenti. Le inchieste non si sono fermate ma non viene più conferito loro quel carico di speranza della stagione di Tangentopoli. Hanno il compito che dovrebbero sempre avere: scovare i reati e punirli. Semplicemente. Senza pretendere che siano i magistrati a correggere le storture della nostra democrazia.

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