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Dossier I giovani ridisegnano il food

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    Dossier | N. 5 articoliRapporto Food & Wine

    I giovani ridisegnano il food

    Bai Brands è stata fondata nel 2009, a Princeton, con l’obiettivo di produrre bibite ricche di antiossidanti e a basso contenuto calorico. Un sogno impossibile, negli Stati Uniti dominati da Coca Cola e Pepsi? Non proprio: sette anni dopo, nell'ottobre 2016, è stata acquisita per 1,7 miliardi di dollari da un colosso come Dr Pepper Snapple Group, la holding che distribuisce marchi come Schweppes. Questo è solo un esempio nell’universo food tech: le start-up di tecnologie alimentari che stanno rigenerando l'industria agroalimentare con soluzioni che vanno dai sensori nelle coltivazioni ai sistemi di monitoraggio nei consumi idrici.

    Il tema sarà centrale anche a Seeds&Chips Global food innovation summit, punto di riferimento internazionale per le nuove imprese Food&AgTech (tecnologie per l’agroalimentare), in collaborazione con l’esposizione Tuttofood in Fiera Milano dall’8 all’11 maggio (una fiera contornata da 320 iniziative che animeranno la Milano Food City, fra cui il fuori salone Week&Food e Italian gourmet con 18 chef stellati da tutta Italia).

    Due i padiglioni dedicati a Seeds&Chips e decine le conferenze organizzate. Fra gli ospiti internazionali attesi spicca l’ex Presidente Usa Barack Obama, a colloquio con il suo consigliere alimentare ed ex chef, Sam Kass, artefice della rivoluzione salutista alla Casa Bianca e ideatore delle campagne «Let’s move» di Michelle Obama, molto attiva sul tema della salute e della corretta alimentazione.

    Come spiega Marco Gualtieri, ideatore e presidente dell’evento, «le start-up giocheranno un ruolo predominante nell’industria: in primo luogo, sono create da giovani con idee fresche, poi possono rinnovare dall’interno industrie troppo rigide con la chiave dell’open innovation: l’innovazione aperta».

    Nel concreto, però, quali sono le migliori innovazioni “impiantate” finora dalle start-up nell’industria alimentare? Alle origini si parlava soprattutto di piattaforme per la consegna di cibo a domicilio e motori di ricerca per ricette o ristoranti, come nei casi dei portali di delivery JustEat e Deliveroo. Oggi l’attenzione si sta spostando su soluzioni che guardano meno ai servizi e più ai meccanismi produttivi: agricoltura di precisione, biotech, packaging sostenibile, tracciabilità della filiera con dispositivi connessi al Web. Qualche esempio? L’americana Indigo, che si occupa di ricerca sui microbiomi delle piante, è stata capace di incassare 156 milioni di dollari in tre round di finanziamenti. Gualtieri cita anche il caso tutto italiano di Robonica, una start-up chiamata così perché fonde nel suo modello di business robotica e idroponica, cioè la coltivazione di piante fuori dal suolo. Il suo prodotto di lancio è Linfa, una serra casalinga che permette di far crescere ortaggi in una cella illuminata da luci Led e connessa alla smartphone con una app. «Si pensa siano “più sexy” le start-up che si occupano ad esempio di e-commerce – dice Gualtieri – Ma in realtà le novità più significative arrivano da ambiti come agricoltura di precisione, efficientamento della filiera e tracciabilità dei prodotti».

    I numeri cosa dicono? Nel 2015, l’anno dell’Expo a Milano, il Future food institute contava 350 start-up del food in Italia, con modelli come quello di droni per il controllo delle coltivazioni (utilizzato dalla romagnola GaiaG) o etichette intelligenti capaci di comunicare via smartphone (il prototipo messo a punto da Viveat, aziende che produce soluzioni per connettere i prodotti alimentari al Web). Su scala mondiale si è raggiunto l’apice di finanziamenti nello stesso anno, con un totale di 5,7 miliardi di dollari messi sul piatto per le start-up dai fondi venture capital. Il 2016 ha già segnato un primo rallentamento, con cali anche in un terreno promettente come l’agritech: la piattaforma di investimenti AgFunder ha rilevato una raccolta di 3,2 miliardi di dollari, contro i 4,6 dell’anno precedente.

    La freddezza dei capitali di rischio è stata, però, compensata dall’arrivo di investitori che hanno tutto l’interesse a farsi rinnovare da aziende innovative (e potenzialmente pericolose) per il proprio business: i gruppi corporate. Giganti Usa come Campbell Soup e Kellogg’s hanno lanciato dei fondi venture capital per sostenere o acquisire start-up che lavorano su nuovi materiali o tecnologie smart, con dotazioni di oltre 100 milioni di dollari.

    Anche le aziende del made in Italy sono scese nell’arena, per rilanciare in chiave innovativa una qualità che deve difendersi dalla concorrenza internazionale. Come spiega Sara Roversi, fondatrice di Future Food Institute, le imprese italiane stanno attingendo dal bacino degli incubatori e delle hackathon, la maratone di startupper, per rivedere i propri modelli e aprirsi ai millennials: i clienti nati dopo il 1980, sempre più attenti a qualità e sostenibilità dei prodotti.

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