Dire che in Lombardia il centrosinistra non ha ottenuto risultati soddisfacenti al ballottaggio è dire poco. I numeri, insieme alla storia delle città, raccontano di una sonora sconfitta. Da cui infatti i leader locali, da Pietro Bussolati segretario del Pd milanese, a Alessandro Alfieri, segretario dei democratici lombardi, cercano di trarre una lezione, non propriamente in linea con il leader nazionale Matteo Renzi. Persino il sindaco di Milano Giuseppe Sala sta tentando di dare qualche indicazione.
Dalla “Stalingrado” a Monza
Il quadro è impietoso. L’ex Stalingrado d’Italia, Sesto San Giovanni, è passata di mano al centrodestra dopo oltre 70 anni di amministrazione del centrosinistra: Roberto Di Stefano, sostenuto insieme da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, ha vinto con il 58,6% la sfida con la candidata del centrosinistra e sindaca uscente Monica Chittò. E non è servita evidentemente nemmeno la presenza in campagna elettorale di Giuliano Pisapia o Walter Veltroni.
Il centrodestra ha vinto anche in tre capoluoghi di provincia, Como (dove l’esito era più scontato), Lodi e Monza. In quest’ultima in particolare l’affluenza si è fermata al 44%, con il centrosinistra che ha amministrato durante l’ultimo mandato.
Certo, il ballottaggio rispetto al primo turno è tutta un’altra storia, e sicuramente il voto del Movimento 5 Stelle più orientato a destra che a sinistra in tutta Italia ha alterato le aspettative. Però va anche detto che in Lombardia i Pentastellati non raggiungono le percentuali di altre regioni e influenzano meno il dibattito politico. Quindi, ammettono gli stessi democratici, è mancato qualcosa. In termini di strategia e di visione politica.
Il “mea culpa” lombardo
I temi più spinosi li introduce il segretario del Pd lombardo Alessandro Alfieri: «C’è un clima da tutti contro il Pd. È in parte comprensibile perché reggiamo responsabilità di governo, ma non hanno aiutato provvedimenti sulle banche e Alitalia, e sullo Ius soli avrei scelto un momento diverso perché è una battaglia di civiltà strumentalizzata». Parole pesanti che parlano di una strategia sbagliata in un momento già difficile.
La risposta arriva peraltro oggi da Renzi stesso, che dichiara che «non si rinuncia allo Ius soli solo per un sondaggio». Coerenza contro strategia.
Per Bussolati, leader del Pd milanese, bisogna tornare a parlare di unione. «Dobbiamo concentrarci per accorciare le distanze e per la compatezza. È evidente come l’essersi mostrati litigiosi e più attenti a enfatizzare le differenze non abbia pagato in termini di consensi. Questi risultati dovrebbero farci riflettere».
Le posizioni più dure
Duro Francesco Laforgia, presidente di Articolo 1- Mdp a Montecitorio, che parla invece di «baldanzosa e superficiale autosufficienza dei gruppi locali, aggrappati a una vuota retorica del Modello Milano. Bisogna lasciare agli elettori decidere impianto e leadership di una coalizione».
In qualche modo punta ad una nuova coalizione anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala, che sottolinea come «sia colpa di tutti. Gli elettori premiano chi sta unito».
La contraddizione a sinistra
L’invito a ritrovare uno spirito unitario non trova esattamente la stessa eco nella Sinistra Italiana. Il leader Nicola Fratoianni non parla nemmeno di un’unità e di nuova coalizione, piuttosto di «una novità politica, per abbandonare la rincorsa ai convegni centristi della prima Repubblica. Una coalizione che va da Calenda a Pisapia porta dritti alla compressione degli spazi per quei valori di solidarietà ed uguaglianza di cui abbiamo bisogno».
Nessun commento impegnativo sulla sconfitta lombarda dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, leader di Campo progressista, che da tempo cerca un modo per riunire la sinistra in tutta Italia forte proprio di quel “Modello Milano” che aveva inaugurato a Palazzo Marino. Ma per ora non ci sono grandi passi in avanti. Non è riuscito a rimettere insieme chi ha deciso di separarsi. La partita è difficile, anche perché Pisapia ha detto di non volere veti sulle persone, mentre invece Mdp punterebbe a mettere in panchina Renzi, mentre Massimo D’Alema non vuole intanto subire forzature da Pisapia. Antipatie e personalismi incrociati hanno la meglio sul grande progetto.
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