L’euro si manterrà sui livelli raggiunti in queste ultime settimane o potrebbe addirittura rafforzarsi ulteriormente da qui ai prossimi 12 mesi, ma non sembra essere entrato nei radar degli imprenditori italiani presenti ieri a Cernobbio come un fattore di rischio significativo, non ancora almeno. Più della metà dei presenti ieri al tradizionale Forum annuale organizzato da Ambrosetti - The European House ritengono che l’apprezzamento della valuta comune nei confronti del dollaro sia un fenomeno tutt’altro che passeggero: per il 29,7% dei partecipanti al sondaggio il cambio è destinato a rimanere sugli attuali livelli da qui al settembre 2018, mentre il 36,7% si attende addirittura un valore superiore entro questo lasso di tempo.
Difficile dire se sia merito della ripresa economica che dopo un lungo periodo sembra finalmente consolidarsi anche nel nostro Paese, ma l’impressione che si ricava ascoltando le opinioni degli economisti e degli imprenditori durante le pause fra i lavori è che non si respiri certo un clima di allarme sul tema, anche se qualche timida preoccupazione comincia qua e là ad affiorare. «La questione del cambio va valutata nel lungo termine: oggi non è un problema ed è meglio riparlarne dopo le elezioni in Germania, che sono un punto cruciale», spiega Francesco Starace, amministratore delegato di Enel, gruppo che realizza quasi il 30% del margine operativo al di fuori dell’area della valuta comune, principalmente in Sudamerica.
Del parere che forse non si sia giunti a un livello critico (nonostante un apprezzamento dell’euro su scala globale di quasi il 9% da inizio anno) è anche Alberto Bombassei, presidente e fondatore di Brembo, che fuori dai confini nazionali ha quasi il 90% del fatturato. «Il tema non è al momento una priorità per le aziende italiane, perché non siamo arrivati ancora a una soglia tale da rappresentare una minaccia per l’export», conferma Bombassei, prima però di avvertire che «se ci dovesse essere un ulteriore rafforzamento il fattore cambio potrebbe diventare oggettivamente sensibile, ma occorre anche considerare che vi sono segnali favorevoli dalla crescita economica in grado di bilanciare gli effetti negativi».
Non si tratta comunque soltanto di una questione di soglie e livelli. «Il cambio è un fattore che senza dubbio incide, ma siamo abituati alla volatilità e il made in Italy ha continuato a imporsi in tutti in questi anni grazie alla qualità», sottolinea Luisa Todini, presidente di Todini Costruzioni Generali e alla guida del Comitato Leonardo creato nel 1993 per promuovere e affermare la “qualità Italia” nel mondo. Più o meno ciò che pensa Riccardo Illy, presidente dell’omonimo gruppo (64% dei ricavi all’estero), quando afferma con convinzione che «l’export italiano va molto bene da decenni e si riusciva a esportare anche quando l’eurodollaro viaggiava a 1,50 perché abbiamo l’abilità di adattare i nostri prezzi di vendita al cambio».
Il potere di imporre i prezzi sul mercato - teoricamente possibile per chi produce beni di nicchia o quando il marchio Italia è ben riconoscibile, meno semplice per chi opera dove la concorrenza è più pressante - può essere in effetti una discriminante fra chi soffre e chi no. «La reattività dell’export al tasso di cambio si è progressivamente ridotta proprio perché la competizione più che sul prezzo si fa sui prodotti» conferma Beniamino Quintieri, presidente di Sace, la società che garantisce sostegno assicurativo e finanziario alle imprese italiane che esportano nel mondo. «Chi vive in settori dove la competizione è più serrata - aggiunge Quintieri - risente in modo maggiore dell’apprezzamento dell’euro, in questo caso c’è da aspettarsi una pressione sui margini pur di mantenere le quote di mercato».
Una conferma in tal senso arriva da Renato Vaghi, amministratore delegato Piaggio Aerospace, che vende i propri aerei per il 70% al di fuori dell’area euro. «Siamo in un settore competitivo non possiamo imporre un prezzo e dobbiamo sicuramente tenere conto del cambio a cui poniamo molta attenzione», ammette Vaghi, che però contemporaneamente indica anche le possibili soluzioni: «Ci proteggiamo dalle fluttuazioni del cambio e cerchiamo di orientare ancora di più verso il dollaro di quanto non lo sia già oggi la catena di fornitura».
La ripresa economica in atto, la continua ricerca della qualità e un attento controllo della gestione dei costi restano dunque i principali antidoti al supereuro e leniscono per il momento le preoccupazioni degli imprenditori presenti a Cernobbio. Anche se qualcuno, fuori dai denti, finisce per ammettere che «a 1,20 si soffre già».
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