Sono solo due le università italiane tra le prime 200 al mondo e 100 in Europa nell'ultima edizione del World University Rankings, la classifica della rivista inglese Times Higher Education: il Sant'Anna e la Scuola Normale di Pisa, rispettivamente 155esima (in salita dal 190esimo) e 184esima (in discesa dal 137esimo posto) sui 1000 atenei inclusi nella graduatoria. La top 10 si conferma dominata da Gran Bretagna e Stati Uniti, con il “duopolio” di Oxford e Cambridge in testa (prima e seconda), seguiti da un blocco di atenei statunitensi (California Institute of Technology, Stanford, Mit, Harvard, Princeton), l'Imperial College di Londra in ottava posizione, la University of Chicago in nona e un outsider europeo al decimo posto: l'Eth di Zurigo, il politecnico federale del Cantone omonimo. Gli atenei europei occupano la metà delle prime 200 posizioni, ma subiscono la concorrenza sempre più agguerrita dei poli asiatici: il Vecchio Continente conta sette atenei fra i primi 30 delle ranking, contro i tre dell'Asia. Solo l'anno scorso, il rapporto era di 10 a 2.
Perata (Sant'Anna): i nostri limiti? Sotto-finanziamenti e “mercato” rigido
La graduatoria del Times Higher Education, per la prima volta allargata a 1000 atenei, è stilata in base a 13 indicatori di performance raggruppati in cinque macro-aree: formazione (incidenza del 30%), ricerca (30%), numero di citazioni (30%), internazionalizzazione (7,5%) e trasferimento tecnologico e di conoscenze verso il sistema industriale (2,5%). Tra i singoli criteri che pesano di più sulla valutazione finale ci sono la reputazione del corpo accademico (15%), i pareri sulla qualità della ricerca (18%) e la produttività dei ricercatori (6%), accanto a fattori comunque rilevanti come la percentuale di staff in possesso di un titolo di dottorato e il reddito generato dalle attività di R&S. Dalla classifica sono esclusi atenei specializzati, come ad esempio la Bocconi di Milano. La prevalenza di atenei britannici e americani ha sollevato, più di una volta, dubbi su una inclinazione troppo “anglocentrica” e sbilanciata su fattori finanziari che non possono che favorire giganti con finanziamenti miliardari alle spalle. Harvard, Stanford, Mit e Princeton cumulano, insieme, una dotazione complessiva di 93 miliardi di dollari.
«I criteri sono internazionali. E avere risorse, cioè soldi, permette di avere più strutture» dice Pierdomenico Perata, rettore della Scuola superiore Sant'Anna. Secondo Perata, gli handicap che inchiodano i nostri atenei sotto alla 150esima posizione sono due: il sotto-finanziamento delle strutture, incluse quelle di eccellenza, e una burocrazia che impedisce di attirare (e retribuire) risorse internazionali. Da un lato, dice Perata, la carenza di capitali si fa sentire sulla qualità complessiva della ricerca. Sant'Anna e Normale ottengono, in due, l'1% dei finanziamenti destinati all'intero sistema universitario. Il tutto in una Pese che investe appena il 4% del Pil nel segmento della education, il terzultimo valore più basso in Europa. «C'è un evidente problema di sotto-finanziamento – spiega – I nostri ricercatori riescono comunque a essere produttivi, ma con più capitali riusciremmo ovviamente a fare meglio». Dall'altro le nostre università sono penalizzate dalla difficoltà di reclutare i migliori ricercatori e docenti su scala internazionale, per una ragione di “mercato”: le retribuzioni. «Il sistema dei concorsi è arcaico e inadatto alla selezione del personale – dice Perata – Basti pensare al meccanismo degli stipendi fissi: se vogliamo assumere un professore da Cambridge, è ovvio che dovremo offrirgli una retribuzione superiore. Ma questo non è possibile con le condizioni attuali». La nota positiva arriva da un settore minoritario ai fini del ranking, ma influente per l'ateneo (e i suoi allievi): “l'industry income”, il collegamento con le aziende e il settore privato. «In questo siamo nella top 10 mondiale – precisa Perata – E quando si parla di “rapporti con le imprese” non si intendono solo i finanziamenti ma il trasferimento tecnologico».
Barone (Normale): siamo troppo piccoli. E alla ricerca serve flessibilità
Vincenzo Barone, direttore della Scuola Normale Superiore, chiama in causa un altro deficit dei centri d'eccellenza italiani: le dimensioni. La “sua” Normale sta sviluppando un progetto di federazione con la concittadina Sant'Anna (nata come sua costola per le scienze applicate negli anni '80) e lo Iuss (Istituti universitario studi superiori) di Pavia per creare un polo condiviso, con la
prospettiva di una governance unitaria. « Siamo sottodimensionati – commenta Barone - Non vogliamo crescere a dismisura ma così siamo davvero troppo piccoli. E dobbiamo lavorare anche sulla visibilità internazionale». Secondo Barone, andrebbero ripensate anche le specificità di scuole d'eccellenza e atenei “generalisti”: «Serve una maggiore specializzazione – dice – Bisogna garantire una formazione medio-alta ovunque, ma gli atenei dovrebbero specializzarsi solo su alcuni campi quando si sale a livello di scuole di dottorato e ricerca». La qualità della ricerca incide per il 30% sulla valutazione del ranking Times Higher Education. Secondo Barone l'asticella dei nostri atenei si può alzare con più investimenti sulla ricerca di lungo termine, senza inseguire i trend con maggiore impatto sull'immediato: «Va bene parlare di industria 4.0, ma bisogna coltivare tutta la ricerca – dice - Per ottenere risultati c'è bisogno di un atteggiamento più flessibile sulla ricerca».
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