Si è detto e scritto: non è una vera competizione. Non c'è nessun candidato, nella rosa di otto diffusa ieri dal blog di Grillo, che abbia la benché minima probabilità di inficiare la cavalcata di Luigi Di Maio verso l'incoronazione a primo candidato premier del M5S. Ma davvero, a quattro giorni dalla proclamazione, qualcuno si aspettava una corsa diversa? Davvero qualcuno avrebbe scommesso sulla vittoria di Roberto Fico, se avesse scelto di candidarsi? In fondo, la sfida tra Di Maio e i “sette nani”, come sono già stati ribattezzati, certifica sì l’esistenza di un candidato Biancaneve destinato da tempo a sposare il principe-establishment sfidando le mele avvelenate degli ortodossi, ma soprattutto sancisce la definitiva trasformazione del Movimento Cinque Stelle in quello che si ostina ad attaccare con veemenza: un partito.
Un partito che magari non sarà ancora in tutto e per tutto come gli altri, ma che esattamente come gli altri “alleva” quelli tra i suoi che ritiene migliori, più adatti ai ruoli che devono ricoprire. Un partito che da un anno manda Di Maio a rappresentarlo nelle sedi diplomatiche e istituzionali, e non soltanto perché è colui che dal 2013 si è esercitato nella funzione di vicepresidente della Camera, alle prese con regolamento e sedute. Un partito non immune dalla malattia del correntismo, che però riesce ancora a tenere a bada. Un partito che ha una struttura non tanto diversa, quanto più primitiva degli altri, a dispetto della modernità dei mezzi e delle piattaforme informatiche: da un lato una platea ampia di iscritti al blog chiamati a dire la loro e a confrontarsi, con un pugno di persone che alla fine decidono; dall'altro un'ossatura regolamentare molto fragile, non a caso oggetto di continui ricorsi, e minata dalla mancanza di trasparenza nei rapporti tra le diverse scatole (le associazioni, il blog, la Casaleggio Associati).
La tanto agognata disintermediazione ha rivelato il suo volto: esiste certamente una base che propone e fa sentire la sua voce attraverso il web (la vera rivoluzionaria intuizione dei Cinque Stelle), ma nelle scelte che contano il filo diretto tra Genova e Milano è stato dirimente. È successo in ogni passaggio chiave, in ogni momento difficile: gli incidenti continui della giunta di Virginia Raggi nella capitale, le tensioni tra le diverse anime, il caso Cassimatis e quello siciliano. Le grane non si sono risolte con una consultazione tra gli iscritti, ma con la decisione (o, più raramente, con la mediazione) di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Una struttura, quella grillina, che ha mal digerito persino un organo intermedio agile come il direttorio, sostituendolo però nei fatti con il potere crescente di Di Maio e dei suoi fedelissimi, da Alfonso Bonafede a Danilo Toninelli. Ma sempre con l'ultima parola affidata ai diarchi.
Come in un partito vero, ma primitivo, il “delfino” individuato da Gianroberto Casaleggio come il più idoneo a diventare il primo candidato premier dei Cinque Stelle è stato cresciuto all'uopo, prima più in sordina, nell'ultimo anno in maniera eclatante. Lo dimostrano le trasferte a Harvard, gli incontri a porte chiuse con le lobby, l'esordio a Cernobbio, la rete tessuta pazientemente con i poteri che contano, Vaticano compreso. È la politica, bellezza. «L'arte del possibile, la scienza del relativo», diceva Otto von Bismark. Un'arte e una scienza che Di Maio, con le sue capriole (da ultimo, quella sull'abusivismo di necessità) e il suo innegabile pragmatismo, ha dimostrato di saper maneggiare. Ma la sua designazione come candidato premier, allora, significa che la normalizzazione dei Cinque Stelle era già scritta nel loro Dna. E che chi oggi lamenta il tradimento dello spirito originario del Movimento o non lo aveva capito o gioca la sua parte in commedia. In attesa che arrivi il suo turno.
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