Una disfatta annunciata. Ma il fatto che fosse annunciata non lenisce la disfatta. D’altra parte nessuno nel Pd sminuisce il dato che si profila dalle urne siciliane. Né dare la colpa alla scissione subita dal Pd ad opera di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema aiuta più di tanto a spiegare il terzo posto, dopo il centrodestra e il M5S, raggiunto dal candidato Fabrizio Micari: perché a sommare i voti di Micari con quelli del candidato della sinistra Claudio Fava, appoggiato tra gli altri dagli scissionisti di Mdp, si raggiunge il 25% circa. Quasi dieci punti sotto Nello Musumeci (centrodestra) e Giancarlo Cancelleri (M5S).
La divisione a sinistra non ha aiutato, ma non spiega tutto. Vero è che – come hanno buon gioco a notare i dirigenti renziani – il centrosinistra che appoggiava Micari, senza Mdp e Sinistra italiana, sembra attestarsi attorno al 20%: un risultato non lontano da quello di cinque anni fa, quando il governatore uscente Rosario Crocetta vinse soprattutto a causa della divisione del centrodestra. E vero è anche che il voto di lista per il Pd in Sicilia non ha mai superato il 13% negli ultimi anni. Ma non c'è dubbio che il pessimo risultato in Sicilia arriva dopo più di una sconfitta importante per il Pd - dopo il risultato storico del 40,8% alle europee del 2014, con Matteo Renzi da poco insediatosi a Palazzo Chigi -: basta ricordare la perdita della Liguria in favore di un centrodestra ritornato competitivo nel 2015 e la perdita di due città come Roma e soprattutto Torino alle comunali del 2016. Un trend, per così dire, che ha poi avuto conferma nella sconfitta al referendum costituzionale dello scorso anno.
Tutti segnali che non sono stati presi abbastanza sul serio a Largo del Nazareno, nella convinzione che le dinamiche per le elezioni politiche saranno diverse. Certo, i sondaggi a livello nazionale danno il Pd - se in coalizione con centristi, radicali e sinistra di Giuliano Pisapia - competitivo con il centrodestra unito e il M5s al terzo posto. Ma la novità delle votazioni amministrative degli ultimi mesi è proprio la rinascita del centrodestra, che a differenza del passato vede però Forza Italia ridimensionata rispetto ad una Lega divenuta più populista e lepenista.
E la domanda che molti si fanno nel Pd e dintorni è se vale la pena continuare con una campagna di lotta e di governo, come quella che Renzi sembra aver impostato, nel tentativo di rincorrere i due diversi populismi – quello della Lega da una parte e quello del M5S dall'altra – sul loro terreno. Mentre invece il Pd dovrebbe accentuare il suo profilo europeista e riformista, un po' come fatto da Emmanuel Macron in Francia.
La riflessione sul voto siciliano, insieme all’apertura del tavolo per un’alleanza larga in vista delle vicine elezioni politiche, sarà al centro della direzione del Pd di lunedì 13 novembre. Il giorno dopo, non a caso, della kermesse di Campo progressista nella quale Giuliano Pisapia dovrebbe annunciare il posizionamento del suo movimento in vista del voto (si va verso una lista con ambientalisti e radicali, alleata del Pd nei collegi uninominali).
Ma la resa dei conti interna è già iniziata, con il leader della minoranza interna Andrea Orlando che ha già messo sul tavolo la vera questione: la premiership di Renzi, sancita dallo statuto del Pd che prevede che il segretario sia anche il candidato premier. Per Orlando, ma anche per Dario Franceschini che pure ha appoggiato Renzi alle primarie di partito del 30 aprile scorso, il fatto che si debba andare verso una coalizione il più larga possibile (ma nessuno, al di là delle dichiarazioni ufficiali, punterebbe un euro su un accordo con gli scissionisti di Mdp) ha come logica conseguenza la scelta del candidato premier assieme agli alleati. Il non detto è quello che dice chiaramente Emanuele Macaluso, vecchio dirigente Pci vicino al presidente emerito Giorgio Napolitano: la premiership migliore, inclusiva e non divisiva come sarebbe quella di Renzi, è quella dell’attuale presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Eppure non ha tutti i torti Renzi a ricordare che il premier, con questa legge elettorale di impianto prevalentemente proporzionale, si deciderà all’indomani del voto nella dialettica parlamentare per la formazione del governo. E che il problema del Pd non è tanto indicare preventivamente il premier quanto mettersi nelle condizioni di esprimerlo, il premier. E certo divisioni interne e discussioni di questo genere in campagna elettorale non aiutano a prendere più voti. C'è poi una considerazione da fare: perdendo la premiership, il Pd sarà sempre il Pd? Il contraccolpo di un cambiamento del genere – ossia leadership e premiership separate - potrebbe minarne le stesse fondamenta.
Per questo Renzi sembra essersi convinto dell'opportunità di fare quelle primarie di coalizione che mesi fa gli chiese Pisapia e che ora in pochi, in realtà, vogliono fare fuori dal Pd: un modo per rinsaldare preventivamente la sua premiership. Con la consapevolezza del vero incubo dietro l’angolo: lungi dall’esprimere il prossimo premier, il Pd rischia piuttosto di fare la fine del Partito socialista spagnolo. Ossia costretto ad appoggiare, in una larga coalizione, un premier espresso dal centrodestra vincente.
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