È morto Totò Riina, il capo di Cosa nostra. L'ultimo riconosciuto. Né la Commissione provinciale né quella regionale, infatti, dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993 e 24 anni di latitanza, sono mai più tornate a riunirsi.
La vita di Riina, 87 anni, che ha accumulato 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi, nato a Corleone (Palermo) il 16 novembre 1930, si è spenta dopo alcuni giorni di coma nel Reparto detenuti dell'ospedale di Parma, dove era ricoverato da gennaio 2016. La morte dignitosa, che i suoi legali avevano richiesto e che la Cassazione aveva suggellato a marzo di quest'anno, è arrivata senza che abbia potuto tornare nella sua Corleone.
Una fine dignitosa che neppure sfiorò il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini di scorta, dilaniati nel '92 nella strage di Capaci. Dietro quella strage, così come dietro quella in cui poco dopo perse la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini che lo vigilavano giorno e notte, così come dietro i successivi tentativi di strage tra Roma, Firenze e Milano, c'era la sua follia e quella degli uomini pronti a rincorrerla. Fino a che – secondo la ricostruzione che da anni sta tentando di ricucire la procura di Palermo, finora senza successo – non giunse la trattativa con settori marci e deviati dello Stato per porre fine alla macelleria mafiosa. La strategia stragista, quella prova di forza con le Istituzioni a suon di morti e bombe, si sarebbe conclusa in cambio di favori inconfessabili. Nel processo a suo carico, in corso a Palermo sulla trattativa Stato-mafia, Riina era imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato.
La carriera criminale di Riina – detto u curtu per la sua statura o la belva per la sua crudeltà senza limiti – è stata un crescendo mortale e appare persino riduttivo ripercorrerne le tappe. A 19 anni aveva già conosciuto il carcere, poi arrivò la strage di Via Lazio del 10 dicembre 1969 e su per li rami criminali giunse ad alleanze sempre più strette, non solo all'interno di Cosa nostra ma anche con la ‘ndrangheta e la camorra. Grazie al boss Luciano Liggio, che lo allevò come un figlio pronto a prenderne un giorno il posto, Riina imparò presto che i matrimoni di interessi con Calabria e Campania, nel nome degli affari milionari da spartirsi, potevano tornare utili. Così si legò a don Mico Tripodo, vecchio capobastone della ‘ndrangheta di cui divenne compare d'anello e ai fratelli camorristi Nuvoletta che erano formalmente affiliati a Cosa nostra.
Nel 1981 lui e i suoi uomini versarono e fecero versare fiumi di sangue con centinaia di morti nella seconda guerra di mafia dalla quale uscì vincitore tanto da imporsi, nel 1982, come capo della “cupola”.
Questo curriculum sintetico si arricchisce di omicidi, intimidazioni, processi, condanne e persino assoluzioni, tutto rigorosamente in latitanza. Quando, il 15 gennaio 1993, giunsero le manette a Totò Riina, provocarono un terremoto che, come ricordano Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia nella richiesta di archiviazione al Gip di Palermo dell'indagine “Sistemi criminali”, determinarono la frammentazione degli assetti di potere interni all'organizzazione e lo scompaginamento di una direzione unitaria. Mai avuto un cenno di pentimento: solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell'omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati.
Con la sua morte si apre la corsa alla successione nella quale non sembra stagliarsi il profilo del boss latitante Matteo Messina Denaro, nonostante ci sia chi, tra gli analisti più che tra investigatori e inquirenti, ne è convinto.
© Riproduzione riservata