Laurea triennale, laurea magistrale, titolo di dottorato con soggiorni all’estero inclusi. In totale fanno almeno otto-dieci anni di formazione, maturando qualifiche che possono valere retribuzioni di ingresso sopra i 100mila euro l’anno. All’estero. E in Italia? La durata del percorso è simile, ma cambia tutto il resto. Secondo uno studio del consorzio di università Almalaurea, la retribuzione media di un dottore di ricerca occupato nella Penisola si ferma a 1.496 euro mensili netti, contro i 2.295 euro che possono essere raggiunti da un parigrado trasferito in uno dei principali Paesi Ocse. Un divario di 799 euro nelle entrate mensili che si aggiunge al disagio provocato da tempi lunghi nella stabilizzazione, sia nello sbocco tradizionale della carriera accademica che negli eventuali approdi in azienda. È vero che sul piatto ci sono comunque un reddito superiore a quello dei laureati magistrali (fermi a 1.153 euro) e un tasso di occupazione intorno all’85 per cento. Nel complesso, però, come nota anche il direttore di Almalaurea Ivano Dionigi, il «mercato del lavoro nazionale non riesce ancora a valorizzare appieno il percorso formativo e potenziale professionale» delle risorse con un PhD in mano.
Retribuzioni basse. Rispetto all’estero e all’Italia
Sul fronte delle retribuzioni, il guadagno medio dei dottori si ridimensiona (ulteriormente) quando si confrontano vari gruppi disciplinari. O si dà un occhio agli standard internazionali. La media di 1.496 euro può alzarsi fino a massimi di 1.734 euro dei dottori di ricerca in scienze della vita, ma anche scivolare fino a poco più di 1.200 euro per la categoria meno valorizzata in assoluto: i dottori di ricerca in scienze umane, pagati in media 1.256 euro netti mensili. E qui gli sbocchi garantiti o meno dalle singole discipline incidono fino a un certo punto. Anche all’estero i colleghi specializzati nelle cosiddette humanities «guadagnano poco», ma solo in rapporto ai picchi raggiunti in discipline come ingegneria. Stando a un’indagine di Humanities Indicators, un portale americano di ricerca, i dottori di ricerca in discipline umanistiche percepiscono un valore “mediano” (intermedio) 75mila dollari.
Al di là dei casi specifici, le migliori prospettive internazionali fanno sì che oltre il 70% dei dottori di ricerca italiani ritenga di scovare «migliori opportunità» oltreconfine. Viste le premesse, dice Dionigi, «non stupisce che molti dottori di ricerca scelgano di emigrare all'estero, dove possono contare maggior valorizzazione in termini retributivi e di crescita professionale».
Troppo qualificati per fare i manager
La «crescita» di cui parla il direttore di Almalaurea equivale alla possibilità di stabilizzarsi contrattualmente o alle chance di scatti di carriera proporzionati al background portato in dote a università e imprese. Allo stato attuale delle cose, però, sembrano un miraggio sia l’una che gli altri. Quanto alla stabilità, i tempi per ottenere un contratto all’altezza dei propri requisiti finiscono per dilatarsi nel rimpallo tra la ricerca di finanziamenti ai propri studi o contratti instabili all’interno di aziende. Nel caso di chi persegue la carriera accademica, è indicativo che circa il 30% dei dottori «occupati» a un anno dal termine sia, in realtà, sostenuto da una borsa di studio post doc o un assegno di ricerca. Una quota superiore al tempo indeterminato, fermo al 26,8 per cento. Se si parla di evoluzioni di carriera in azienda, il paradosso che incombe è quello del famoso «eccesso di qualifiche»: i curricula troppi fitti di studi e competenze non fanno troppa breccia nelle imprese, dove il grado di istruzione del management è tra i meno elevati d’Europa. «Nel 2016 la quota dei manager in possesso di un titolo universitario infatti è meno della metà rispetto alla media EU27: 25% contro 57% - spiega Dionigi - Ma le indagini ci dicono che, a parità di condizioni, un imprenditore laureato assume il triplo di laureati rispetto a quello non laureato».
Ricerca? Quale ricerca?
Anche per i laureati nelle cosiddette Stem (la sigla di scienze, technology, engineering, maths), le discipline tecnico-scientifiche, le prospettive non sono così rosee. La possibilità di spendersi come ricercatori “puri” o nei dipartimenti delle aziende è limitata dalla scarsità di investimenti in Ricerca e sviluppo su scala nazionale. Negli ultimi 15 anni, secondo dati Eurostat, l’intensità della spesa nel settore è cresciuta per lo 0,32% del Pil, fino a raggiungere l’attuale 1,33 per cento. Una media che ci tiene lontani da Germania (2,87%), Francia (2,23 %), Regno Unito (1,70%), oltre che dall’obiettivo fissato al 2020 (pari all'1,53%) e ancor di più da quello europeo (3%). Una lacuna che si potrebbe colmare, secondo Almalaurea, con il potenziamento delle borse di studio e dei rapporti fra università e imprese in determinati settori, ad esempio attraverso i dottorati industriali. «Ma anche e soprattutto attraverso l'aumento degli investimenti destinati nel nostro Paese a Ricerca e Sviluppo, a livello pubblico e privato - dice Dionigi - Per quello è il settore che rappresenta per molti dottori i ricerca il principale sbocco lavorativo e una vera e propria vocazione professionale».
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