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I colossi del web: dialogo ma no a «fughe in avanti»

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le imprese americane

I colossi del web: dialogo ma no a «fughe in avanti»

«Dialogo e apertura», perché ormai la web tax è matura. Anzi è un «passaggio ineludibile», evitando però «fughe in avanti». La linea abbracciata dai colossi del web ormai è tracciata anche in Italia . Lo dimostrano sia i primi accordi con il fisco italiano - da Google ad Apple che hanno pagato multe milionarie per gli arretrati - che il confronto «molto positivo» che gli stessi big del web hanno avuto direttamente con il nostro ministero dell’Economia nelle settimane scorse. I rappresentanti di queste aziende presenti in Italia - tra gli altri Amazon, Facebook e Airbnb - riuniti in gruppo di lavoro, promosso dalla Camera di commercio americana in Italia.

Hanno incontrato più volte il Mef. E a metà ottobre hanno presentato un documento ai tecnici del ministero con alcuni principi base per la web tax (prevedibilità, coerenza, parità di trattamento con altri settori e trasparenza). Fino all’emendamento Mucchetti che ha sparigliato le carte. «Il Parlamento è sovrano e consideriamo l’emendamento un ulteriore passaggio positivo anche per la percezione del tema, ma siamo anche convinti che sia auspicabile trovare una soluzione a livello europeo e di Ocse», avverte Simone Crolla, consigliere delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy.

La norma così come è stata scritta può creare anche complicazioni tecniche per il rischio di doppie imposizioni e per la difficoltà di riscuotere l’imposta, «oltre al rischio di danneggiare le Pmi digitali europee», aggiunge Crolla. Che al momento vista anche l’entrata in vigore nel 2019 (quando magari ci sarà una soluzione europea) non vede «rischi di reazioni commerciali dall’altra parte dell’Atlantico». Il vento del resto è cambiato negli Usa con l’avvento di Trump che ora punta a riportare a casa (con aliquote agevolate) i fatturati miliardari di questi colossi.

In Italia come si evince dai bilanci depositati nel registro delle imprese gestito da Infocamere molti di questi big a volte pagano tasse di poche centinaia di migliaia di euro. Con prime eccezioni importanti come Google che dopo aver chiuso un accordo sul passato (fino al 2015) versando al Fisco 306 milioni, per il 2016 avrebbe pagato ben 42 milioni di imposte dopo i soli 2 milioni del 2015.

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