Quando si parla di buoni motivi per trasferirsi all'estero, i giovani italiani convergono su alcune risposte. «Mi pagherebbero di più» non è l'unica, ma una delle più popolari. Secondo dati pubblicati dal Sole 24 Ore, gli under 30 assunti nel nostro Paese possono essere retribuiti anche 5-10mila euro lordi in meno rispetto ai coetanei volati all'estero. Un gap che si allarga di pari passo con il titolo di studio e la valorizzazione (o meno) che ne consegue. In Germania, un titolo di dottorato fa crescere la retribuzione di ingresso di circa 10.678 euro rispetto ai massimi che si potrebbero raggiungere con una sola laurea triennale (da 43.750 euro a 54.428 euro). In Italia un PhD in curriculum “rende” appena 1000 euro in più rispetto a una laurea di primo livello, finendo per minimizzare i ritorni economici dell’investimento.
Ma da cosa dipende il divario? Una delle interpretazioni di base tira in ballo il costo della vita: gli stipendi esteri sono rapportati a prezzi maggiori rispetto all’Italia (le retribuzioni sono più alte perché devono rapportarsi a un diverso potere d’acquisto). Ma l'argomento inizia a vacillare, soprattutto quando è utilizzato in solitaria e senza tenere conto del cambio di condizioni che si è verificato negli anni di crisi . Giancarlo Caprioglio, consulente senior della società di ricerca JobPricing, ammette che il fenomeno «si è originato principalmente dai costi della vita significativamente più alti degli Stati nord europei». Oggi però, prosegue Caprioglio, «questa situazione non è più giustificabile. Ci sono regioni tedesche con un costo della vita non superiore a quello delle principali città italiane».
Gli indiziati: produttività a rilento e tempi di ingresso lunghi(ssimi) sul lavoro
Più che una causa, sembrano essercene diverse. L'italiana Ilaria Maselli, senior economist all'organizzazione di ricerca Conference board, studia il fenomeno da un punto di osservazione privilegiato: Bruxelles, dove vive e lavora dal 2006. Maselli individua soprattutto due problemi alla base del gap. «Una prima causa potrebbe essere la produttività – dice - C'è stata una crescita bassissima negli ultimi 20 anni e questo influenza tutti i salari, non solo quelli dei giovani». La crescita a rilento indicata da Maselli si riflette nei numeri registrati dalla Penisola dal 1997 ad oggi. Secondo i dati forniti al Sole 24 Ore, la produzione per lavoratore (output per worker, un indice di produttività) è cresciuta di appena lo 0,97% dal 2007 al 2017, contro l'1,35% registrato da un Paese come la Svezia. Entrando nel dettaglio, l'output per ora lavorata è rimasto immobile tra 2007 e 2017 a un valore di 52 dollari. Nello stesso periodo, in Irlanda, si è passati da 58 a 77 dollari.
La seconda fragilità evidenziata da Maselli riguarda il mercato del lavoro in sé, inteso in questo caso come i tempi di inserimento medi. Contratti a termine, collaborazioni e rapporti di part-time involontario fanno sì che la trafila per la stabilizzazione si prolunghi ben oltre le scadenze naturali del mercato europeo. Il ritardo, dal punto di vista lavorativo, si traduce in stipendi inferiori a quelli raggiunti dai coetanei stranieri nello stesso periodo di tempo. «In Belgio a 30 anni non sei “giovane”, hai un mutuo e una famiglia – spiega - Il tasso di occupazione internazionale dei laureati si aggira sopra al 90%, in Italia bisogna aspettare i 35 anni per raggiungere livelli simili». Secondo i dati dell'Osservatorio precariato dell'Inps, le assunzioni a termine di lavoratori fra i 25 e i 29 anni di età sono aumentate da 245.581 a 327.800 unità tra 2015 e 2017, mentre i nuovi contratti a tempo indeterminato sono crollati da 116.603 a 71.688 unità nello stesso periodo. In quest'ottica, anche strumenti come l'apprendistato finiscono per rivelarsi un'arma a doppio taglio: nati per agevolare le assunzioni, diventano parte del problema quando favoriscono l’inserimento di risorse con inquadramenti più bassi a rispetto alle offerte internazionali.
Imprese micro, stipendi in linea
Parte del divario, però, nasce dalla conformazione stessa delle aziende italiane. La prevalenza di imprese di dimensione media, piccola e micro nel nostro tessuto imprenditoriale spinge le retribuzioni su livelli più bassi rispetto a quelli che sarebbero imposti da società di grosse dimensioni. Anche all’interno della Penisola, del resto, si crea uno spread di tutta evidenza fra le Ral (retribuzione annua lorda) dei dipendenti di società di taglia diversa. Secondo dati della già citata JobPricing, un lavoratore di un’impresa con meno di 10 dipendenti viaggia sui 25.815 euro lordi all’anno, contro i 35.280 euro offerti dalle aziende di dimensione medio-grande (251-1000 dipendenti) e i 36.948 euro lordi delle “grandi” (oltre i 1000 dipendenti). Se si considera che 4,2 dei 4,3 milioni di società italiane rientrano nella fascia micro (1-10 dipendenti), l’asticella complessiva degli stipendi non può che virare all’ingiù. Soprattutto per gli ultimi arrivati, i giovani, sopra o sotto la soglia simbolica dei 29 anni. In fondo, fino a che non ne compi 40, «sei ancora un ragazzo».
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