Deficit sostanzialmente sotto controllo, grazie soprattutto al “dividendo” dei bassi tassi di interesse garantiti dalla politica monetaria espansiva della Bce. Debito in lenta discesa, ma pur sempre elemento primario di vulnerabilità, per il combinarsi dell'incognita politica legata all'esito delle elezioni del prossimo 4 marzo e del possibile (e di certo poco auspicabile) riaffacciarsi sui mercati di dubbi connessi all'effettiva possibilità che si riesca a centrare gli obiettivi di progressiva riduzione dell'ingente stock accumulato finora. Il 2018 si apre con alcune certezze e diverse incognite sul versante dei conti pubblici, anche in vista del nuovo round negoziale con la Commissione europea che in primavera, una volta celebrate le elezioni, dirà la sua sulla legge di Bilancio appena licenziata dal Parlamento.
La campagna elettorale non è rassicurante da questo punto di vista. Il tema del debito non compare tra le priorità delle diverse ricette di politica economia che si contrappongono in vista del voto. Al contrario, si assiste a un proliferare di proposte – soprattutto sul versante fiscale – incompatibili con un quadro di finanza pubblica che richiede massima vigilanza. Certo la via maestra per ridurre il debito che quest'anno dovrebbe attestarsi al 130% del Pil, contro il 131,6% del 2017 resta la crescita. Conseguire tassi di incremento del Pil decisamente più sostenuti rispetto al pur incoraggiante 1,5% atteso per il 2017 è la precondizione per garantire la discesa stabile del rapporto debito/pil, che potrà trarre beneficio anche da un ritorno dell'inflazione nei dintorni del target cui punta la Bce (2 per cento).
In un anno in cui comunque il programma straordinario di acquisti della Bce (il Quantitative easing) andrà a ridursi, e nella prospettiva di un possibile aumento dei tassi, obiettivo primario della politica economia (qualsiasi sia il governo che si formerà dopo le elezioni) dovrà essere quello di combinare i necessari stimoli per sostenere la crescita e l'occupazione con il controllo degli aggregati di finanza pubblica. Improbabile che anche nel 2018 si possa invocare nuova flessibilità da parte di Bruxelles, dopo gli spazi di manovra concessi dal 2015 in poi, pari a circa 30 miliardi se si comprende anche l'ultima tranche inserita nella legge di bilancio, che ha consentito di fissare il deficit nominale per l'anno in corso all'1,6% del Pil, rispetto a un tendenziale dell'1,1 per cento.
La nuova governance economica europea che dovrebbe veder la luce proprio quest'anno, sulla scorta delle proposte avanzate dalla Commissione lo scorso 6 dicembre, incorpora è vero la flessibilità all'interno della disciplina di bilancio europea (in linea con la comunicazione della Commissione del gennaio 2015), e tuttavia non può essere considerata a priori come un implicito via libera a nuove concessioni sul deficit. Resta in piedi la possibile richiesta di una correzione sui conti di almeno lo 0,2% del Pil (3,2 miliardi), cui occorrerà far fronte. Celebrate le elezioni, il percorso di riforme strutturali non dovrà arrestarsi. E bisognerà chiarire da subito che nessuna delle ricette in campo in questa campagna elettorale punta a scardinare l'architettura su cui si è costruita la governance economica dell'eurozona.
A migliorarne il funzionamento, se mai, in un percorso necessariamente condiviso con gli altri partner europei. Dal discorso di fine del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella questo aspetto e questa preoccupazione emerge implicitamente, soprattutto nel passaggio in cui si invitano le forze politiche a presentare proposte serie e credibili, realistiche e concrete, e a puntare tutte le energie e le risorse disponibili al sostegno del lavoro e dell'occupazione.
Il primo appuntamento sarà con la predisposizione del Documento di economia e finanza a metà aprile. Nel caso in cui l'esito delle elezioni non consenta la formazione in tempi ragionevoli di un nuovo esecutivo, sarà il governo Gentiloni a farsene carico. E non sarà un appuntamento da poco, poiché già per quella data occorrerà – tra l'altro – decidere come far fronte all'ulteriore coda delle vecchie clausole di salvaguardia, pronte a scattare dal 2019 con il loro ingombrante fardello di 12,4 miliardi di aumenti dell'Iva e delle accise.
Non si può dunque abbassare la guardia sul versante dei conti pubblici, né le elezioni possono costituire l'alibi per rinviare scelte che in ogni caso andranno adottate, a partire dalla riduzione del debito e dalla stabilizzazione ed ulteriore incremento (per quanto possibile) dell'avanzo primario, che è la fondamentale clausola di garanzia a tutela della sostenibilità dell'intero quadro di finanza pubblica.
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