Conosciuto in modo approfondito solo da una minoranza, apprezzato in particolare da dirigenti, laureati e dipendenti con redditi elevati, e richiesto soprattutto sotto forma di polizze sanitarie e previdenza integrativa. Parliamo del welfare aziendale, le cui potenzialità di crescita in Italia sono al centro di uno studio Censis-Eudaimon presentato oggi a Roma alla presenza del sottosegretario al welfare Luigi Bobba. Secondo la ricerca, oltre la metà degli occupati (il 58,7%) preferisce i servizi di welfare aziendale - come ad esempio polizze o convenzioni per gli asili nido – ad un incremento dello stipendio, mentre il 23,5% è contrario e il 17,8% non ha una opinione in merito.
Sanità e previdenza in testa alle preferenze
Tuttavia, denuncia lo studio, «solo il 17,9% dei lavoratori italiani ha una conoscenza precisa di cos'è», il 58,5% lo conosce solo per grandi linee e il 23,6% non sa cos'è. Hanno poca familiarità con questo strumento soprattutto chi ha studiato poco (il 47% di quelli con la licenza media) o ha redditi bassi (44,6%) oppure è un genitore single (40,3%). Tra le prestazioni più “gettonate” dai lavoratori ci sono quelle relative alla sanità (indicate dal 53,8% degli occupati); alla previdenza integrativa (33,3%); poi i buoni pasto e la mensa aziendale (31,5%); il trasporto da casa al lavoro (ad esempio, l'abbonamento per i trasporti pubblici, 23,9%); i buoni acquisto e le convenzioni con negozi (21,3%); l'asilo nido i centri vacanze, i rimborsi per le spese scolastiche dei figli (20,5%).
Piu’ favorevoli quadri e dirigenti
I più favorevoli a trasformare in prestazioni di welfare eventuali quote premiali della retribuzione risultano i dirigenti e quadri (73,6%), i lavoratori con figli fino a tre anni (68,2%), i laureati 63,5%) e i lavoratori con reddito medio alto (62,2%). Assai meno propensi allo scambio welfare-retribuzione sono gli operai e i lavoratori con redditi bassi. In altre parole, la propensione al welfare aziendale è direttamente correlato al reddito percepito: più è basso, minore è l'apertura alle prestazioni integrative. Ma il welfare aziendale – sottolinea la sintesi dello studio Censis, «non può assumere la funzione di surrogato di aumenti salariali per gli occupati nelle fasce stipendiali più basse». Che negli ultimi anni sono scresciute a dismisura: le famiglie operaie in condizione di povertà assoluta sono infatti aumentate del 178% tra il 2008 e il 2016, fino a diventare quasi 600mila.
I paradossi del sistema
Il welfare aziendale deve quindi essere considerato «uno strumento indiretto di integrazione dei redditi», ma «non può e non deve essere sostitutivo degli incrementi retributivi». Al momento, le norme italiane di favore fiscale per il welfare aziendale hanno «il merito di far crescere il settore», ma nel medio periodo si rischia un effetto paradossale: quello di «favorire di più i lavoratori con redditi alti e non quelli con redditi più bassi e con maggiori fabbisogni sociali. Dovrebbe dare supporto a chi ha più bisogno, piuttosto che essere erogato come un premio in proporzione al reddito, altrimenti si limita a riflettere le disuguaglianze senza alleviarle e finisce per non aiutare di più i lavoratori più bisognosi».
Settore con valore potenziale di 21 mld
Una riflessione sulle possibili distorsioni è dunque necessaria, anche considerando il valore potenziale complessivo delle prestazioni e dei servizi di welfare aziendale, stimato intorno ai 21 mld di euro se questi strumenti fossero garantiti a tutti i lavoratori del settore privato, «pari a quasi una mensilità di stipendio in più all'anno per lavoratore». Lo studio, realizzato con il contributo di Credem, Edison e Micheli) reputa perciò «indispensabile che il welfare aziendale sia promosso come un pilastro aggiuntivo del più generale sistema di welfare italiano e non venga percepito come un premio che avvantaggia soprattutto i livelli occupazionali più alti».
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