Quella di Matteo Renzi è una parabola sulla quale i politologi discuteranno a lungo, ed è anche il prodotto - oltre che di una crisi della sinistra, di governo e di lotta, in tutte le democrazie occidentali - di un elettorato che è divenuto in pochi anni molto più volatile rispetto ai comportamenti più cristallizzati a cui eravamo abituati. La sua ascesa sulla scena nazionale, tra le primarie per la premiership perse contro Bersani nel dicembre del 2012 e quelle per la leadership del partito vinte contro Gianni Cuperlo appena un anno dopo, ha coinciso con una grande volontà di cambiamento espressa dall’opinione pubblica e dagli elettori anche attraverso il voto, per la prima volta, al partito anti-casta e anti-sistema di Grillo che già alle elezioni del 2013 aveva raggiunto il 25% circa dei consensi.
La fase della “rottamazione” è stata dunque salutata con favore da un popolo di centrosinistra stordito dalla non vittoria di Bersani e dal successivo governo di Enrico Letta assieme al nemico storico di sempre, Silvio Berlusconi. Renzi ha avuto il merito di tentare di svecchiare definitivamente una sinistra che ancora affondava le sue radici in schemi novecenteschi e, da premier, ha avuto il merito di aver messo in campo una serie di riforme - più o meno riuscite, certo – che il Paese attendeva da molti anni e di aver contribuito a imporre all’attenzione e all’agenda di Bruxelles alcuni temi fondamentali come quello dell’immigrazione, della riforma della governance e del cambio di passo in politica economica.
Paradossalmente il declino di Renzi è tuttavia iniziato il giorno dopo il grande successo storico del Pd alle europee del 2014, con un risultato oltre il 40% che riportava ai fasti della vecchia Dc nella Prima repubblica. Un risultato che ha saldato i timori di Silvio Berlusconi, che da quel momento ha iniziato a mettere in crisi il patto del Nazareno sulla riforma della legge elettorale e della Costituzione, e dei nemici interni ridotti a minoranza nel partito, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Il giovane leader rignanese ha sopravvalutato quel risultato, convincendosi di avere in mano il Paese: da qui il suo non vedere subito le conseguenze della rottura del patto Nazarano maturata dopo le europee e avvenuta pochi mesi dopo, nelle settimane concitate delle votazioni in Parlamento per l'elezione del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Da qui, insomma, un eccesso di presunzione nel pensare di poter vincere il referendum costituzionale con le sole forze sue personali e di una parte del Pd e con tutti gli altri contro. Con la conseguente personalizzazione di un appuntamento elettorale importantissimo per la modernizzazione del Paese («se perdo lascio la vita politica»), errore che ha avuto l’effetto devastante del tutti contro Renzi. Lui stesso, dopo la sconfitta referendaria, ha ammesso in alcune conversazioni con il Sole 24 Ore che forse avrebbe potuto evitare o contenere la disfatta referendaria dimettendosi da Palazzo Chigi qualche settimana prima del voto in modo da togliere di mezzo la questione della sua figura, diventata bersaglio dei suoi nemici interni ed esterni.
Di certo Renzi, una volta deciso di ricandidarsi alla guida del Pd, ha commesso più di un errore di gestione del partito, con scelte anche ondivaghe e in contraddizione tra di loro. Sottovalutando la portata sistemica della bocciatura della riforma che intendeva superare il bicameralismo perfetto e semplificare le nostre istituzioni: ossia il ritorno di fatto alla Prima repubblica, il che comportava anche la fine della cosiddetta vocazione maggioritaria del Pd.
Uomo del maggioritario, Renzi ha annaspato nel nuovo quadro proporzionalista: era il momento di federare il centrosinistra, tentando di evitare con gesti chiari una scissione esiziale che ha paralizzato per mesi il partito al governo in una discussione tutta interna mentre nel Paese cresceva la rabbia e la paura. Il risultato deludente degli scissionisti di Leu non riduce le responsabilità di chi, tra Renzi e i suoi nemici, non si è impegnato abbastanza per evitare quella scissione. Perché le scissioni a sinistra hanno storicamente prodotto sempre lo stesso risultato, penalizzando sia gli scissionisti sia la «casa madre». Tuttavia dare al solo Renzi, ai suoi errori e alla sua scarsa capacità di dialogo e di inclusione la responsabilità della sconfitta storica del 4 marzo sarebbe sciocco e semplicistico. Finendo per dare paradossalmente troppa importanza alla parabola di un solo leader quando è tutto il campo ad essere in macerie.
Val la pena ricordare che la sinistra di governo è in crisi in tutte le democrazie occidentali, così come in tutte le democrazie occidentali crescono i movimenti anti-sistema e populisti. Nel nostro Paese la situazione è poi aggravata dal fatto che la vicenda del Pd e di Renzi di questi anni ha coinciso con una crisi istituzionale che per via della sconfitta referendaria - e, aggiungiamo, di ben due sentenze della Corte costituzionale che hanno bocciato due leggi elettorali - è rimasta congelata: prova ne è la mancanza di una chiara maggioranza in Parlamento che renderà particolarmente difficile la soluzione del governo nelle prossime settimane. I problemi che la riforma costituzionale messa in campo da Renzi tentava di risolvere, primo fra tutti il problema della governabilità, restano tutti sul tavolo. E una sinistra di governo che non voglia ridursi a ridotta novecentesca di testimonianza dovrà tenerne conto e farsene carico.
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