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«Oggi mi dimetto domani». L’antica arte di temporeggiare da…

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dopo il discorso del nazareno

«Oggi mi dimetto domani». L’antica arte di temporeggiare da Quinto Fabio Massimo a Matteo Renzi

Non gioco più, me ne vado. Ma non adesso, non da subito, non così su due piedi: succederà, sì che succederà, potete giurarci, ma soltanto «terminata la fase dell’insediamento del Parlamento e della formazione del governo». Il che - considerando gli equilibri tutti da interpretare che escono dalle elezioni del 4 marzo - potrebbe significare in futuro. In un futuro molto, molto lontano.
Matteo Renzi ha spiazzato tutti con l’ultimo discorso del Nazareno. O meglio: con quello che avrebbe dovuto essere il suo ultimo discorso del Nazareno. Resta, per ora, nella carica di segretario del Pd e il «per ora» coinciderà fatalmente con una fase delicatissima della storia repubblicana. Eleggeteli voi, se ci riuscite, un presidente del Senato e un presidente della Camera con il Movimento 5 Stelle che ha fatto cappotto, l’expoloit della Lega e i tradizionali partiti di governo relegati a quello che è poco più del posto dei partiti di testimonianza. Affidatelo voi, di grazia, un mandato esplorativo a qualcuno per la formazione di un nuovo governo con il Pd di Renzi che resta inchiodato all’opposizione. Lui non guiderà neanche la delegazione democratica impegnata alle consultazioni con il Quirinale: «Vado a sciare», avrebbe confidato nella notte. Ma forse era soltanto una battuta: «La delegazione che andrà al Quirinale sarà decisa dalla direzione nazionale del Pd. Vorremmo tranquillizzare tutti i polemisti di queste ore che stanno discutendo una notizia falsa, sulla presunta settimana bianca di Renzi: una notizia che semplicemente non corrisponde al vero», hanno smentito dallo staff dell’ex sindaco di Firenze. La cosa ormai chiara è che Renzi, dopo la disfatta, ha scelto di interpretare un ruolo antico che qui in Italia a volte ha portato bene, altre decisamente male: quello del temporeggiatore.

Dal sacco di Roma a Quinto Fabio Massimo
Italiani, popolo di santi, poeti, navigatori e temporeggiatori, in politica come nelle arti o nella vita. Perché andarsene è un’arte difficile e le dimissioni, come diceva qualcuno, si minacciano ma non si danno, dal momento che c’è sempre il rischio che possano essere accettate. Attendere, prego. E non potrebbe essere altrimenti in un Paese che sull’attesa si fonda. Almeno dai tempi dell’antica Roma: «Hic manebimus optime» («Qui steremo benissimo»), disse un anonimo centurione ai tempi del sacco dell’Urbe (390 a.C.), quando i galli di Brenno misero al guinzaglio la lupa capitolina come a nessuno era riuscito fino a quel momento e in tanti, in riva al Tevere, cominciavano a prendere in considerazione l’idea di abbandonare i sette colli. Un’uscita gradassa che infervorò gli animi e convinse i romani a resistere agli invasori. Ma il più celebre di tutti gli «attendisti» fu senza dubbio Quinto Fabio Massimo, condottiero romano del III secolo a.C. che «temporeggiando ripristinò lo Stato» (Ennio), perché temporeggiando «snervò la Seconda guerra punica» (Cicerone). E chissà che Renzi non stia temporeggiando per snervare la «Terza Repubblica» (Di Maio) e ripristinare lo stato (ante referendum del 4 dicembre 2016).

Quando Federico provò a spodestare Lorenzo da Firenze
Tuttavia da ex inquilino di Palazzo Medici Riccardi (dov’era presidente della provincia) e Palazzo Vecchio (dov’era sindaco), il destino del segretario del Pd pro tempore s’incrocia ancora meglio con quello di Federico da Montefeltro, fine temporeggiatore dell’età delle signorie che, secondo gli storici moderni, fu tra gli occulti sostenitori della congiura dei Pazzi (1478) che puntava all’eliminazione fisica di Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Col secondo ci riuscirono, col primo no. Anzi: il suo potere ne uscì rafforzato, perché i tatticismi non sempre pagano.

Tra D’Annunzio ed Elton John
Sembrerà curioso, considerando il febbrile attivismo del personaggio, ma c’è stato un tempo in cui pure Gabriele D’Annunzio ha fatto l’«attendista». Vedi alla voce impresa di Fiume, quando all’indomani della Grande guerra, per difendere l’italianità di un pezzetto di Jugoslavia, rispolverò l’«Hic manebimus optime» romano. E creò non pochi imbarazzi nel governo Giolitti che dovette intervenire per lo sgombero, per giunta sotto Natale. Guai a costringere gli italiani a lavorare sotto Natale.
Ma più che alle gesta degli arditi, ai Menenio Agrippa, ai Coriolano e agli Enrico Toti ironicamente tirati in ballo dal grande Francesco Merlo su Repubblica, il «lungo addio» di Renzi, novello senatore di Firenze, Scandicci, Impruneta, Signa e Lastra a Signa, è musica. Il suo è un addio che ricorda un po’ quello dei vari Pooh, Elio e le Storie Tese o addirittura Elton John: andarsene, sì, ma un po’ alla volta. Per ora faccio un tour e dopo il tour me ne andrò. Intanto il tour va sold out. E, intanto che va sold out, il tour continua. Show must go on.

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