«Perché abbiamo scelto i Cinque Stelle? Perché gli altri non ci hanno ascoltato». Salvo Amato insegna informatica in un istituto tecnico siciliano ed è tra i fondatori del portale Professioneinsegnante.it. Nel 2017, a quasi 50 anni, è entrato di ruolo . Nel 2018 ha fatto parte di quel 31,6% di impiegati e insegnanti che ha sostenuto il Movimento cinque stelle il 4 di marzo. Uno dei tabù infranti dalle ultime elezioni è proprio quello del voto dei dipendenti del pubblico impiego, transitati in buona parte dal vecchio bacino del centrosinistra a quello, inesplorato, del movimento di Luigi Di Maio. Se si considera l'intera Pa, secondo dati dell’istituto di ricerca Ipsos, l’incidenza di elettori pentastellati sul totale di dipendenti pubblici andati alle urne il 4 marzo sale al 41,6%.
Il Pd si ferma al 17%, mentre la sua scissione a sinistra Liberi e uguali arriva a stento al 2 per cento. Il cambio di rotta si spiega ancora meglio dando un occhio ai flussi elettorali rispetto alle elezioni precedenti. I Cinque Stelle sono stati i primi beneficiari della diaspora di elettori Pd nel 2013, attirando il 14% dei votanti in fuga dall’ex partito di Matteo Renzi. La cesura è netta ma non ha nulla di sorprendente, almeno per i diretti interessati: «Non è stato un cambio improvviso - spiega Amato - C’erano già stati dei segnali evidenti, ad esempio con l’ultimo referendum. Ma a quanto pare sono caduti nel vuoto».
Quel vuoto di tutele che fa votare Cinque Stelle
A prima vista, il boom di dipendenti pubblici tra gli elettori dei Cinque Stelle cozza con l’ipotesi di un voto drogato dalle promesse sul reddito di cittadinanza. Se i beneficiari sono soprattutto i «disoccupati del centro-sud», dice la tesi, perché i Cinque Stelle hanno fatto breccia anche fra i dipendenti della Pa, dalla sanità agli enti pubblici? «Negli ultimi anni, nel pubblico impiego si è creato un forte allarme per le riforme che lo stanno interessando, in arrivo proprio dal centrosinistra. Evidentemente c’è bisogno di nuova rappresentanza» spiega Luciano Fasano, docente di Scienza politica alla Statale di Milano. In altre parole, riforme come quella firmata da Marianna Madia hanno incrinato il «rapporto di fiducia» che si era sempre conservato tra dipendenti del settore e centrosinistra. Se il boom dei Cinque Stelle tra i disoccupati risponde all’appeal del reddito di cittadinanza, la crescita di consensi tra i lavoratori del pubblico impiego rispecchia un vuoto di rappresentanza. A quanto pare incolmabile dal Pd, finché nel suo programma parla di trasformare il settore «da zavorra a locomotiva» e operare un turnover radicale della macchina amministrativa. «Nella parte centro-meridionale c’è una quota importante di lavoratori collegata ai servizi - spiega Fasano - Questa categoria non si sente più protetta dal centro-sinistra, quindi è in cerca una rappresentanza in una forza nuova come i Cinque stelle. Per mantenere e aumentare le tutele».
Precariato e insoddisfazione dietro il mito del «posto fisso»
Un esempio emblematico è appunto quello del mondo dell’istruzione, in rotta da anni con il Partito democratico di Matteo Renzi. Orizzonte Scuola, una testata specializzata, ha pubblicato dopo le elezioni regionali del 2015 un sondaggio sulle preferenze politiche di circa 2mila utenti. Ne è emerso un tonfo del Pd a vantaggio dei Cinque Stelle, indicati come prima scelta dal 74% degli utenti grazie all’impegno contro le linee della cosiddetta Buona scuola (legge 107/2015). Tra i punti contestati della riforma ci sono l’istituzione dei «leader educativi» (i cosiddetti super-presidi) e l’attuazione del famoso «piano di 100mila assunzioni», realizzato con la mobilità obbligatoria di docenti da una provincia all’altra. Magari dopo anni di precariato, altra piaga che costringe i professori a una girandola di supplenze e trafile burocratiche:«Alcuni colleghi sono stati assunti nello stesso anno di pensionamento. In una regione diversa», fa notare Amato di Professioneinsegnante.it.
Sull’addio al centrosinistra hanno pesato anche fattori paralleli, come la beffa del rinnovo del contratto nazionale. Atteso per nove anni, è sfociato in un aumento salariale medio di 85 euro lordi, al di sotto delle attese di una categoria già sottopagata rispetto agli standard europei. Un malumore che è stato raccolto e interpretato dai Cinque Stelle, con un programma abbastanza esplicito: il «superamento della Buona scuola», attraverso «formulazione di un piano assunzioni razionale, in base al fabbisogno delle scuole su base nazionale, l'incremento della spesa pubblica per l'istruzione scolastica e l'abolizione del precariato». Tra le proposte ci sono l’ancoraggio degli stipendi degli insegnanti alla media Ue e l’incremento della spesa pubblica in istruzione fino al 10,2% del Pil. Ironia della sorte, il nome indicato per il ministero è una vecchia conoscenza per il governo in uscita: il dirigente scolastico Salvatore Giuliano, già consulente di Stefania Giannini e favorevole al disegno originario della legge 107. Qualcuno storcerà il naso, ma tanto è. «Abbiamo cercato dialogo ovunque, nessuno ci hanno dato risposte a parte i Cinque Stelle - sbotta Amato - Vedremo. Noi, più che altro, eravamo esasperati».
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