Il Pd non ha toccato palla, viva il Pd. Dopo il blitz targato Salvini-Di Maio che ha portato alla rapida elezione del pentastellato Roberto Fico alla presidenza della Camera e dell'azzurra Maria Elisabetta Casellati a quella del Senato a Largo del Nazareno si respira una curiosa aria di soddisfazione. Basta ascoltare il segretario "reggente" Maurizio Martina: «Il Partito democratico ha lavorato unito in Aula attorno ai suoi candidati Giachetti e Fedeli in coerenza con quello che abbiamo detto subito dopo il 4 marzo. Saremo forza di minoranza e ci prepariamo per essere l'alternativa alla destra e ai Cinque stelle nel Paese».
E soprattutto basta ascoltare l'ex segretario Matteo Renzi: «La mia analisi è che ha vinto lo schema del "tocca a loro". Era l'unico schema possibile, perché rispettoso della volontà popolare. E' dal primo giorno che dico "abbiamo perso, tocca a loro". I nostri gruppi parlamentari hanno votato compattamente per Giachetti e Fedeli. E lo stile del Pd è stato istituzionale e perfetto, cosa che non sempre era accaduta in passato: tutti i senatori si sono alzati per applaudire il bel discorso di Casellati».
La verità è che l'asse tra M5S e la Lega - asse che al momento prefigura un accordo di governo, anche se la prudenza è d'obbligo perché lo scenario potrebbe cambiare rapidamente - ha salvato il Pd costringendolo a restare unito sulla linea dettata da Renzi all'indomani della sconfitta elettorale: opposizione e preparazione dell'alternativa di governo. Se l'asse M5S-Lega non avesse tenuto il Pd sarebbe stato esposto alla tentazione del dialogo con i Pentastellati da una parte o con il centrodestra e in particolare con l'anima forzista del centrodestra dall'altra, con l'alta probabilità di una spaccatura dei gruppi parlamentari. Che invece hanno tenuto alla prima conta interna del dopo-Renzi (il voto per l'elezione dei presidenti delle Camere si tiene a scrutinio segreto): 54 su 56 al Senato e 102 su 112 alla Camera.
Una compattezza che fa ben sperare Renzi per l'elezione dei capigruppo la prossima settimana, con una tenuta dei gruppi attorno alle due candidature a lui vicine ipotizzate: Lorenzo Guerini alla Camera e Andrea Marcucci al Senato. Soluzione possibile dal momento che l'accordo con l'ala orlandiana prevede l'elezione di un vicepresidente della minoranza al Senato (Anna Rossomando) e di un vicepresidente di area più renziana alla Camera (Ettore Rosato qualora non dovesse essere rieletto capogruppo al posto di Guerini). Mentre su Guerini non dovrebbero esserci problemi, contro l'elezione di Marcucci si sono levate voci autorevoli. A partire da quella del capogruppo uscente Luigi Zanda, che contesta lo schema di due renziani come capigruppo e auspica una soluzione più collegiale. Come che sia, a nessuno nel Pd conviene dividersi ora. Perché a ben vedere, come rilevato subito dallo stesso "reggente" Martina che punta alla conferma nell'assemblea nazionale che si riunirà entro aprile, la possibile soluzione di governo M5S-centrodestra a trazione leghista spalanca delle praterie davanti a un Pd che si appresta ad essere pressoché l'unica forza politica all'opposizione.
Lo spiega bene il costituzionalista Stefano Ceccanti, già senatore nella XVI legislatura e ora rieletto alla Camera: «È evidente che, a meno di improvvise e improbabili sorprese, siamo di fronte a un reset complessivo del sistema dei partiti. L'accordo diretto tra M5s e Lega, per ora sulle presidenze delle Camere e poi su un governo Di Maio-Salvini, ristruttura il sistema lungo la frattura tra sovranisti ed europeisti, con i primi in maggioranza in questa legislatura - è il ragionamento di Ceccanti -. E' possibile che Di Maio e Salvini presentino il loro accordo solo come temporaneo, magari in vista di una riforma elettorale che li presenti come i due attori chiave del futuro sistema. Tuttavia dovranno governare insieme, fare una legge di bilancio, esprimere posizioni nei vertici europei e questo, al di là delle loro intenzioni, li configurerà invece come il polo sovranista, a cui si opporrà lo schieramento europeista che avrà come perno il Pd». Ceccanti cita anche le posizioni dell'editorialista del Sole Sergio Fabbrini sulla nuova frattura chiave tra forze dell'apertura e forze della chiusura per concludere che essendo la società italiana, a differenza della Russia putiniana, una società aperta «un'alternativa può e deve essere preparata».
Ma per approfittare della possibile prateria che gli si apre davanti il Pd deve evitare due errori: non deve rinchiudersi in uno sterile e rancoroso redde rationem interno tra renziani e antirenziani (e qui ci si aspetta anche una prova di generosità da parte dell'ex leader Renzi) e non inseguire sogni di ritorno ad una sinistra più tradizionale il cui spazio elettorale è ormai ridotto a pochi decimali come ha dimostrato il deludente risultato degli scissionisti di Leu il 4 marzo scorso. Capire e correggere gli errori certo, ma mantenendo dritta la barra del riformismo e dell'europeismo contro le forze "sovraniste". E non è detto che un Pd senza più Renzi alla guida sappia farlo.
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