Gli italiani che non pagano tasse, tariffe e multe; gli enti locali che non pagano i fornitori; le pubbliche amministrazioni che reciprocamente non si pagano i rispettivi debiti. Sono tanti gli anelli della catena dei crediti e dei debiti incagliati, che negli anni hanno aperto buchi nei conti pubblici e privati. Per le imprese, la catena si è stretta spesso nel fallimento: per i conti pubblici si è tradotta in regole emergenziali che hanno spostato sul presente e sul futuro i debiti del passato.
Prima sono arrivati i decreti sblocca-debiti che, per sciogliere la montagna dei mancati pagamenti ai fornitori delle pubbliche amministrazioni, hanno prestato a Regioni ed enti locali circa 30 miliardi di euro, da restituire in 30 anni. Molte Regioni, però, hanno usato i prestiti non per saldare le fatture alle imprese, ma per alimentare nuova spesa corrente con una mossa bocciata dalla Corte costituzionale: è nato così il decreto salva-Regioni, che ha permesso di spalmare in 30 anni anche la copertura di questi buchi.
Infine, a chiudere il cerchio, ha mosso i suoi primi passi attuativi la riforma dei conti locali che, dopo un vivace dibattito tecnico accompagnato dal silenzio della politica, ha chiesto agli amministratori di pulire i bilanci dalle vecchie entrate ormai impossibili da riscuotere: si sono generati così disavanzi multi-miliardari, che vanno coperti. In quanto tempo? Indovinato: 30 anni.
I numeri in pagina, che saranno confermati presto dai rendiconti del 2017 in preparazione in queste settimane, mostrano bene il legame fra gli inciampi nella riscossione e i tempi infiniti dei pagamenti ai fornitori. La gobba di nuovi «residui attivi», cioè delle entrate accertate ma non riscosse nell’anno, è stata certificata giovedì anche dalla relazione della Corte dei conti sulla finanza locale, e si spiega in parte anche con l’impatto della riforma dei bilanci, e le difficoltà con cui le amministrazioni locali la stanno digerendo. Ma al di là dei fatti contabili, proprio la riforma prova a puntare dritta al cuore del problema. Si tratta del circolo vizioso del «non ti pago», affrontato in questi anni con la più classica delle soluzioni: quella che ipoteca presente e futuro per i conti non pagati del passato.
I casi sono multiformi, le ragioni tecniche complesse, ma la storia all’osso è sempre quella. Per anni i patti di stabilità hanno imposto a Regioni, Province e Comuni di chiudere i bilanci con “utili” (nel linguaggio della finanza pubblica gli «avanzi») sempre più ambiziosi per ridurre il deficit complessivo della Pa, cioè il numero che ogni anno viene messo sotto esame a Bruxelles. Per raggiungere gli obiettivi, gli amministratori locali hanno privatizzato una parte del debito pubblico, mettendolo a carico delle imprese sotto forma di mancati pagamenti, e hanno puntellato la colonna delle entrate mantenendo in bilancio crediti ormai impossibili da recuperare. Quando la corda si è fatta troppo tesa, si è corsi ai ripari disegnando piani di rientro a lunghissima scadenza.
Ma nemmeno nella finanza pubblica esistono pasti gratis, e ogni euro destinato a coprire i buchi del passato è un euro non speso per i bisogni del presente. In Piemonte - uno dei casi più plateali alla base del salva-Regioni - se ne vanno così oltre 200 milioni all’anno, per ripianare il maxi-deficit da 5,8 miliardi certificato nel 2015 dalla Corte dei conti e maturato negli anni in un percorso avviato con le vecchie giunte di centro-sinistra, esploso con il centro-destra ed ereditato da Pd e alleati una volta tornati in sella. Al Comune di Napoli un primo, parziale stralcio delle vecchie entrate mai incassate ha aperto una voragine da 850 milioni, e ha avviato la giostra dei piani anti-dissesto che da anni imbrigliano assunzioni e spese di Palazzo San Giacomo senza riuscire ad avviare davvero il risanamento. E a Roma un’intricata vicenda di crediti mai pagati fra Regione, Comune e Atac tiene tutti appesi al rischio di fallimento dell’azienda di trasporti.
Ma proprio il caso della Capitale aiuta a mostrare che la classica lettura manichea, con i cittadini “virtuosi” opposti alla Pa inefficiente, non coglie il problema. Tra i tanti cappi al collo della più grande partecipata italiana c’è anche un tasso di evasione senza pari, che porta Atac a ricavare dai biglietti poco più del 60% rispetto all’Atm di Milano a parità di chilometri percorsi. Con questo buco nella cassa, Atac fatica a pagare fornitori e creditori, e tra questi c’è il Campidoglio che a sua volta ha ingaggiato una lunga battaglia sui contributi della Regione. Con il risultato che un default di Atac aprirebbe una voragine nei bilanci del Comune.
Al problema, insomma, concorrono tutti. I cittadini che non pagano multe e tasse (Palermo nel 2016 ha incassato il 17,5% delle multe dell’anno, Napoli il 19,7% e Roma il 25,2%), le Pa che non onorano i loro debiti reciproci e quelle che non pagano le imprese. E, dove gli incassi inciampano, i servizi peggiorano, alimentando un’evasione da tributi e tariffe motivata con il fatto che i rifiuti rimangono in strada e i bus non passano. E il circolo vizioso continua a girare.
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