«Se prima della crisi questa era una esposizione statica di espositori e prodotti dinamici, negli ultimi otto anni si è trasformata in una piattaforma dinamica e permanente di prodotti rivoluzionari e imprese innovative. E, parafrasando uno dei nostri convegni, possiamo dire che il prossimo 7 maggio presenteremo a Parma non Cibus 2018 bensì Cibus 2038, perché grazie alla visione convergente tra i nostri azionisti e le imprese agroalimentari stiamo guardando vent’anni avanti». Così Antonio Cellie, ad di Fiere di Parma, sintetizza il fil rouge della kermesse (e della filiera italiana dell’agrifood) organizzata assieme a Federalimentare che per quattro giorni, dal 7 al 10 maggio prossimo, richiamerà nel quartiere ducale 3.100 espositori con 80mila visitatori professionali attesi, il 20% dall’estero, e tra questi 2.500 top buyers delle più importanti catene retail di Usa, Canada, Sud America, Europa, Medio Oriente, Asia.
«Il made in Italy alimentare – sottolinea l’ad – era fino agli anni Duemila un settore anticiclico molto conservativo nel panorama manifatturiero nazionale. Oggi è tra i più innovativi, con una capacità di reinventare continuamente aspetti sostanziali e simbolici dei prodotti e con imprese di tutte le dimensioni perfettamente sintonizzate sul consumatore e i temi etici e ambientali. La cosa è ancora più straordinaria se si pensa che fare innovazione con lotti di milioni di pezzi, come nel food&beverage, è molto più difficile che farlo su poche decine, come nella meccanica o nel design».
Un settore polverizzato per Dna, quello alimentare (ci sono 62mila imprese attive, Federalimentare ne rappresenta 7mila e sono quelle con più di 9 addetti), ma saldamente al secondo posto, dopo la metalmeccanica, per dimensioni e ruolo nell’industria domestica: vale quasi 400mila occupati e 137 miliardi di euro di fatturato nel 2017 (oltre l’8% del Pil italiano) con un’accelerazione di passo negli ultimi trimestri che rende sempre più urgente trovare nuovi sbocchi all’estero, stante la stasi dei consumi interni. Export che ha, sì, raggiunto i 32 miliardi di euro (+6,3% nel 2017 e +76% negli ultimi dieci anni) ma incide ancora solo per il 25% sul business complessivo, contro una media del 37% nel resto della manifattura italiana.
«Oggi sarebbe anacronistico auspicare l’internazionalizzazione della Gdo italiana per aumentare la presenza del made in Italy sulle tavole estere – sottolinea Cellie – perché il fattore critico non è avere Esselunga o Coop in Francia ma aiutare Auchan e Carrefour a comprare e vendere meglio “the authentic Italian”. La strada giusta è quella intrapresa da Ice e Federalimentare con la cabina di regia Cibus dal 2010, che ha generato miriadi di iniziative in tutto il mondo per rendere più fluidi e diretti i rapporti tra aziende italiane e retailer esteri».
Fare innovazione nei 135mila mq del quartiere parmense non significa solo dare spazio ai 1.300 nuovi prodotti che debutteranno tra gli stand – con un’area in più di 5mila mq, rispetto all’edizione 2016, grazie a un nuovo padiglione temporaneo dedicato ai 100 prodotti più innovativi – ma valorizzare nicchie legate a tradizioni e territori che si temeva sarebbero state eclissate dalle produzioni di massa «e invece oggi scopriamo che, mixando tradizione e innovazione, noi italiani siamo riusciti a trasformare prodotti locali di nicchia in prodotti globali, molto più attraenti per il consumatore e profittevoli per retailer e ristoratori rispetto alle referenze main stream», aggiunge l’ad di Fiere di Parma. Che ha cementato quest’anno il connubio con Origo, il Forum internazionale dei prodotti d’eccellenza Dop e Igp: la seconda edizione si aprirà il prossimo 8 maggio a Parma, in concomitanza con Cibus e con il fuori salone per le vie del centro (sotto i Portici del grano), a suggellare il ruolo del capoluogo ducale di capitale mondiale del food d’eccellenza e di Città creativa Unesco per la gastronomia.
La specializzazione in nicchie è anche il passepartout per il made in Italy sui mercati mondiali in epoca di dazi e barriere non tariffarie. «In un mondo che va verso intese bilaterali, noi italiani siamo un interlocutore prezioso seduto ai tavoli commerciali – fa notare Cellie - perché esportiamo grande qualità e non grandi volumi e quindi non urtiamo la sensibilità negoziale della controparte, a differenza dei grandi importatori. Dobbiamo però stare attenti a salvaguardare non solo le denominazioni ma le nostre materie prime, perché senza un forte comparto agricolo alle spalle la filiera rischia di perdere il vantaggio competitivo nel lungo periodo». Lavorare sulle nicchie implica però un impegno molto più gravoso, rispetto ai prodotti di massa, per raggiungere le tavole straniere, e il dato ancora basso di presenza del nostro agrifood oltreconfine ne è il riflesso.
«In questa direzione Cibus è da quarant’anni una piattaforma unica per valorizzare e spingere l’eccellenza della produzione agroalimentare italiana e questa edizione 2018, con numeri in forte crescita rispetto a due anni fa e un raddoppio dei buyers esteri ospitati, si presenta come l’espressione apicale dell’Anno del Cibo Italiano proclamato dal Governo», commenta Gian Domenico Auricchio, nella doppia veste di presidente di Fiere di Parma e di Assocamerestero. A sua volta l’associazione delle 78 Camere italiane in 54 Paesi «è uno strumento potente per conoscere e affrontare con strategie mirate mercati e consumatori diversi, accomunati però tutti da una crescente domanda di cibo di qualità e di sicurezza a tavola. Il made in Italy su questo fronte è il benchmark internazionale con potenzialità enormi ancora da esprimere», conclude Auricchio.
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