Un mastodontico progetto che tocca due terzi della popolazione mondiale ma nel quale l’Italia ha ancora un ruolo contenuto, o comunque al di sotto delle potenzialità, rilevanti, connesse all’iniziativa. È passato un anno dal primo Forum per la cooperazione internazionale nell’ambito della cosiddetta “Belt and road initiative”. L’incontro, che si è tenuto a Pechino e ha visto la partecipazione dei rappresentanti di 110 paesi, ha fornito un palcoscenico internazionale al progetto Nuove vie della seta.
In due anni i cinesi hanno investito oltre 50 miliardi di dollari
L’iniziativa è stata promossa da Pechino nel 2013 allo scopo di connettere dal punto di vista infrastrutturale, via terra e via mare, la Cina con l’Eurasia. I cinesi hanno investito oltre 50 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2016. Più di sessanta i paesi coinvolti (il 63% della popolazione mondiale, il 30% del prodotto interno lordo e il 35% degli scambi commerciali internazionali). Numeri da capogiro. Stando ai dati ufficiali cinesi, riportati dall’Ambasciatore italiano a Pechino Ettore Sequi, l’interscambio tra Cina e i Paesi attraversati dalla Nuova Via della Seta avrebbe superato i 400 miliardi di dollari dal 2014 al 2017. Solo lo scorso anno sarebbe andato oltre quota 110 miliardi di dollari, in pratica un quarto del commercio estero cinese.
Contrari al progetto cinese Usa, Giappone, India e Unione europea
Il piano generale, così come delineato cinque anni fa, dovrebbe cambiare il volto dell’Eurasia: 900 progetti di nuove infrastrutture, quasi 1000 miliardi di dollari investimenti, 780 miliardi generati dagli interscambi con i 60 paesi coinvolti, 200 mila nuovi posti di lavoro. Contrari al progetto, in quanto - dal loro punto di vista - tentativo della Cina di estendere la propria sfera di influenza (è in effetti un pilastro della politica estera di Xi Jinping), si sono schierati Usa, Giappone, India e Ue (a luglio è previsto un summit tra Bruxelles e il gigante asiatico).
Il treno solo andata da Mortara a Chengdu
Che fetta ha per ora avuto l’Italia in questa torta? Allo stato attuale, piccola. Il treno merci che collega il polo logistico di Mortara, vicino a Pavia, a Chengdu, nella regione del Sichuan, ha registrato una sola corsa, a dicembre. Trasportava macchinari, componenti, prodotti di metallo, mobili, piastrelle, automobili. Il convoglio è giunto a destinazione ma il viaggio è stato di sola andata, probabilmente perché i costi sono ancora troppo elevati e il flusso di merci movimentato non li copre ancora del tutto. Le prospettive, comunque, ci sono, almeno sulla carta: nel 2017 l’export di prodotti italiani in Cina è cresciuto del 25 per cento.
Da Mattarella a Gentiloni, la carta delle visite istituzionali
L’Italia, uno dei partner commerciali più importanti di Pechino all’interno dell’Unione Europea, ha ben chiaro che su questo progetto si gioca e si giocherà sempre di più in futuro una partita importante. Lo dimostrano le visite istituzionali, a febbraio dello scorso anno, del presidente Mattarella con i ministri Alfano e Delrio nel febbraio dello scorso anno, oltre a quella di Gentiloni, unico leader G7 presente al Forum di Pechino del maggio scorso.
Nel III trimestre 2018 il Fondo di investimento sino-italiano dovrebbe essere operativo
In occasione del forum dello scorso anno, l’ad del gruppo Cdp Fabio Gallia e il Chairman di China Development Bank (CDB) - l’equivalente cinese di Cdp - Hu Huaibang hanno firmato un memorandum d’intesa per la creazione del Sino-Italian co-investment fund, un fondo da 100 milioni di euro dedicato al sostegno delle piccole e medie e imprese, italiane e cinesi. Il fondo non è ancora operativo. A fine 2017 è stata lanciata una consultazione di mercato al fine di identificare un fondo che potesse gestire l’iniziativa (sia da parte Cdp sia da parte China Development Bank). Poche le proposte ricevute, in quanto sono pochi i gestori che hanno le capacità per seguire questo tipo di business. Nel terzo trimestre 2018 il fondo dovrebbe essere operativo.
L’attenzione conese sui porti di Genova e Trieste
Sempre in occasione del primo Forum per la cooperazione internazionale della Belt and road initiative, la parte cinese ha dichiarato di voler investire nei porti di Genova, Trieste e Venezia. A un convegno organizzato dalla Sioi (Società italiana per l’organizzazione internazionale) e dall’Ambasciata cinese l’ambasciatore Li Ruiyu ha confermato: «Le autorità e le aziende cinesi hanno già preso contatti con i tre porti per sviluppare nuove opportunità di cooperazione». L’obiettivo è intercettare il flusso commerciale da e per la Cina. Missione non facile: i tre scali marittimi italiani devono fare i conti con la competizione del porto del Pireo. Il porto greco, controllato dal gigante della logistica Cosco (quarta compagnia mondiale) , è il sesto al mondo e il terzo nel Mediterraneo.
L’alternativa italiana alla ferrovia che dovrebbe attraversare i Balcani
Con il raddoppio del Canale di Suez nel 2015, il Mediterraneo ha acquisito un’importanza strategica. In questa area il numero di navi porta container è cresciuto negli ultimi 5 anni del 20%.La Cina ha investito nel Pireo ed è alla ricerca di un canale di accesso per connettere velocemente le merci con il resto d’Europa. Il governo italiano ha offerto ai cinesi una via complementare alla ferrovia che Pechino ipotizza di costruire per collegare il porto greco all’Europa attraverso i Balcani. Roma suggerisce di sfruttare anche i sistemi portuali e ferrati già esistenti - e già pronti - come Trieste. Gentiloni ha dato la linea. In occasione del vertice di Pechino ha chiarito la posizione italiana: «Non abbiamo alcuna intenzione, non solo per amicizia verso la Grecia, ma anche per chiarezza nei confronti verso la Cina, di mettere in competizione o in alternativa i porti dell’alto Adriatico con il Pireo» ha spiegato. Intanto Cosco ha acquisito il 40% di Vado Ligure: il nuovo terminal container sarà operativo entro il 2018. La partita a scacchi è solo iniziata.
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