Il Qe in corso dal marzo del 2015 e per il momento confermato fino a fine settembre non ha garantito solo il calo della spesa per gli interessi pagati sul debito pubblico, altri 5 miliardi quest’anno (si scende dal 3,8% del 2017 al 3,5 % del Pil) sempre che i mercati e le agenzie di rating non cambino idea. Il programma di acquisto di titoli di Stato ha avuto anche un effetto collaterale assai positivo per le finanze pubbliche.
Il Qe ha fatto lievitare il bilancio della Banca d’Italia, che si è chiuso nel 2017 con un utile netto di 3,9 miliardi, il più alto di sempre, 1,2 miliardi maggiore dell’anno scorso. E allo Stato, dopo la distribuzione dei dividenti ai partecipanti e gli accantonamenti a riserva, sono stati girati 3,365 miliardi, più 1,5 miliardi di imposte, per un totale di 4,9 miliardi, un miliardo e mezzo in più dell’anno scorso. Enel e Eni insieme, tanto per limitarci alle due principali partecipate del Tesoro, non sono arrivate nemmeno alla metà di questa cifra con i loro dividendi.
Il Qe fa crescere il reddito di Bankitalia
Come ha spiegato lo scorso mese di marzo il Governatore, Ignazio Visco, all’assemblea ordinaria dei partecipanti, la politica monetaria espansiva dell’Eurosistema ha determinato un nuovo aumento dimensionale del bilancio della Banca (+20,3% l’attivo) e una crescita del reddito, nonostante i tassi bassi, visto che il margine di interesse ha sfiorato gli 8 miliardi. I titoli acquisiti nell’ambito del Quantitative easing sono cresciuti del 45% (112 miliardi in valore assoluto, raggiungendo i 358 miliardi, dei quali 289 sono italiani). Naturalmente con la normalizzazione graduale delle politica monetaria il bilancio della Banca d’Italia come quelli delle consorelle dell’Eurosistema tornerà con il tempo su volumi e utili più contenuti. Ma nel frattempo per lo Stato e i partecipanti al capitale, gli incassi sono stati importanti.
Una “public company” diversa dalle altre
Negli stessi anni del Qe il numero dei soci, o per essere più precisi dei quotisti, è cresciuto molto: con il varo della riforma voluta dal governo Letta (legge n.5/2014) è stato disposto un aumento di capitale dall’anacronistico valore di 156mila euro a 7,5 miliardi e i quotisti sono saliti a 124, con 85 nuovi. La Banca d’Italia, da questo punto di vista, è diventata una sorta di “public company”, anche se, è bene ricordarlo, la legge pone limiti molto netti ai partecipanti: nessuno può avere più del 3% del capitale e i loro poteri sono limitati all’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili, nominano sindaci e Consiglio superiore nel rispetto dell’indipendenza piena dei suoi membri i quali, a loro volta, non hanno alcun modo di interferire o di essere informati sull’esercizio delle funzioni della Banca: lo proibiscono la legge nazionale e i Trattati europei.
La competenza del Consiglio superiore è circoscritta alla sola gestione aziendale («al Consiglio superiore spettano l’amministrazione generale nonché la vigilanza sull’andamento della gestione e del controllo interno della Banca, mentre le decisioni che attengono alla sfera istituzionali, come quelle sulla vigilanza delle banche, sono assunte collegialmente dal Direttorio» recita lo Statuto). Uno status unico all’interno dell’Eurozona, dove ogni banca centrale ha un modello di governance che è figlio della sua lunga storia: Bundesbank e Banque de France sono per esempio controllate dal Tesoro, mentre la banca centrale del Belgio è addirittura quotata in borsa.
Ai quotisti un rendimento del 4%
Quest’anno ai partecipanti privati, banche, assicurazioni e Casse previdenziali, è andato un dividendo di 218 milioni, con un rendimento attorno al 4% rispetto al capitale investito. La cedola massima sarebbe stata di 340 milioni ma 4 partecipanti, Intesa SanPaolo, UniCredit, Carige e Generali, hanno ancora quote superiori al 3% del capitale (per un valore nominale complessivo di circa 2,7 miliardi di euro, su un totale di 7,5 miliardi) e quindi 122 milioni di dividendi sono stati sterilizzati e incamerati tra le riserve. Il congelamento del dividendo e dei diritti di voto dovrebbe incentivare questi quattro grandi a scendere a 9mila quote (il 3% appunto), e rendere la platea della “public company” ancor più numerosa.
Tra i partecipanti al capitale le casse dei professionisti
Tra le new entry ci sono 6 assicurazioni, 8 fondi pensione, 9 enti previdenziali, 20 fondazioni di matrice bancaria e 42 banche. La novità più significativa nel panorama dei partecipanti è rappresentata dalle otto casse privatizzate aderenti all’Adepp, che detengono attualmente il 14,53% del capitale avendo investito oltre un miliardo. In un contesto di politica monetaria normale il dividendo si manterrà grazie alla posta speciale finanziata con le risorse non distribuite. Mentre il Tesoro beneficerà di una sorta di atterraggio morbido nel dopo-Qe, visto che il capitale rimborsato dei titoli in scadenza sarà reinvestito – come ha confermato Visco – per un periodo prolungato di tempo.
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