Cinquant’anni di vita italiana. Cinquant’anni di mutazioni. Cinquant’anni di nuovi equilibri industriali e sociali, culturali e civili. E di nuovi pesi e contrappesi, fra i territori e le specializzazioni produttive che compongono quell’articolato mosaico chiamato Italia. Il Triangolo Industriale su cui è sorta la modernizzazione italiana dagli anni Dieci al Boom economico e dagli anni Sessanta agli anni Ottanta è stato il perno su cui si è eretto l’edificio del Novecento. Un edificio basato sull’imprenditoria privata e sull’economia pubblica.
Un edificio solido ma tutt’altro che immobile che, gradualmente, a partire dagli anni Ottanta, ha modificato geometrie e architetture con lo spostamento dell’asse strategico verso il Nord-Est, fino all’attuale Poligono della Crescita che si sviluppa fra Parma e Bologna, Padova e Trento. Le elaborazioni sui dati Istat di lungo periodo – compiute dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo per Il Sole 24 Ore - raccontano una evoluzione insieme quantitativa e profondamente strutturale. Nel 1971, gli addetti nel Nord-Ovest (appunto il vecchio Triangolo Industriale, Milano-Torino-Genova, ossia la Lombardia, il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta) erano il 48,8% del totale della manifattura. Il Nord-Est (nella definizione dell’Istat, accolta dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, formato da Emilia Romagna e Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige) contava sul 22,1 % degli addetti totali.
In quella Italia delle fabbriche, la base industriale era dunque rappresentata dall’economia pubblica di Genova (i cantieri navali e l’elettronica di Stato), dalla egemonia manifatturiera di Torino con la Fiat Impresa-Stato e dalla natura radicalmente produttiva di una Milano che era ancora lontana dal diventare la città degli stilisti e della moda, convertita alle dolcezze e alle sinuosità del terziario. Nel 2015, considerando sempre il parametro degli addetti manifatturieri, gli equilibri sono cambiati. La quota del Nord-Ovest è scesa al 36 per cento. Tredici punti percentuali in meno. Quella del Nord-Est è salita al 30,7 per cento. Nove punti percentuali in più.
In mezzo, in questi quasi cinquant’anni, c’è veramente di tutto. La crisi della grande impresa e l’acquisizione di una maggiore centralità delle economie di territorio e dei distretti. Il cammino delle grandi città del Nord - in particolare Milano - verso una sempre maggiore connessione con i network metropolitani stranieri - soprattutto europei - dalla crescente caratura globale, secondo una linea evolutiva che rende i principali centri di agglomerazione urbana sempre più autonomi dai rispettivi Stati di appartenenza.
La scoperta dell’“altra Italia”, che acquisisce consapevolezza di sé anche grazie al lavoro scientifico di economisti provenienti dalla cultura tradizionale come Giacomo Becattini e Giorgio Fuà, con il primo che adatta il canone del “distretto industriale” marshalliano alla complessità italiana e il secondo che apporta a questa operazione culturale l’autorevolezza elitaria e la forza eretica del suo pensiero. Il travaglio della fabbrica fordista classica, che a Torino e a Milano ha avuto i suoi bastioni italiani, e la lenta avanzata del capitalismo basato sulla economia della conoscenza, che ha nella manifattura soft-skilled di Bologna e di Verona, di Modena e di Vicenza i suoi epicentri simbolici.
La ricerca, per il nostro Paese, di una ricollocazione nelle catene globali plasmate dal Washington Consensus – assurto negli anni Novanta ad alfabeto e grammatica della globalizzazione - e sconquassate dall’ingresso della Cina nel Wto nel 2001.
Nella polverizzazione dei cicli produttivi globali e nella complessa definizione di un equilibrio fra contenimento dei costi, innovazione di processo e servizio ai clienti, il Nord-Est ha trovato un suo posizionamento importante. Non a caso, lo stesso spostamento del baricentro italiano - con l’aumento del peso specifico dei territori e dei distretti, delle economie locali e del Quarto Capitalismo con l’accento emiliano-romagnolo e veneto, trentino e friulano - ha riguardato anche l’export, che appunto in questa parte d’Italia ha trovato una delle sue vocazioni principali. Ancora nel 1980, l’export proveniente dal Nord-Ovest era la metà del totale italiano. Nel 2017, questa quota ha perso dieci punti, calando al 40 per cento. Nel 1980, il Nord-Est valeva il 25,5% dell’export italiano a prezzi correnti. Ventisette anni dopo, è salito al 32,7 per cento.
Naturalmente, questa meccanica dei mercati internazionali si riflette sulla creazione del valore aggiunto industriale, che dal 1980 al 2015 ha visto il Nord-Ovest scendere dal 42,1% al 37,9% del totale e il Nord-Est aumentare dal 23,1% al 30,1 per cento.
In questo passaggio storico e in questa stretta contemporaneità, che rappresentano le condizioni logiche e materiali, strategiche e prospettiche per la costruzione del futuro del nostro Paese, la dinamica è tutta giocata fra il Nord-Ovest e il Nord-Est. Il Centro e il Mezzogiorno restano – con la polifonia del primo e con la stasi, se non la decrescita infelice, del secondo – elementi stabili: in termini di addetti, di incidenza sulle esportazioni e di valore aggiunto industriale, i cambiamenti di lungo periodo sono nell’ordine di pochi punti, se non di pochi decimi.
La geografia economica e civile italiana – elementi indissolubili, nel nostro modello di sviluppo nazionale – è dunque mutata in maniera graduale, ma consistente in un Paese che modifica continuamente la sua industria, ma che ad essa non può – e non deve - rinunciare.
@PaoloBricco
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