Prima le imprese, poi le famiglie. Suona così il calendario della riforma fiscale che sta emergendo dalle dichiarazioni degli esponenti della maggioranza giallo-verde.
Ad aprire le danze è stato ieri mattina Alberto Bagnai, economista della Lega, spiegando che l’accordo prevede di partire dalle aziende. A loro, in pratica, la riforma fiscale che prova a scaldare i motori in vista della legge di bilancio prospetta l’abbattimento di nove punti, dal 24 al 15%, del conto presentato a chi già oggi paga l’Ires. Le famiglie sarebbero invece al centro del «secondo tempo» della riforma, ma con un anticipo dal 2019 per una platea ancora da individuare: il lavoro dei tecnici, sul punto, si concentra, come spiega Armando Siri (l’ideatore della Flat Tax), sulle famiglie più numerose, e su determinate soglie di reddito. L’incrocio dei due parametri dipenderà dalle compatibilità economiche, e dalla trattativa che va avviata subito con l’Unione europea sugli spazi di bilancio.
L’avvio della riforma dalle imprese, nell’ottica della maggioranza, serve a concentrare sugli operatori economici l’effetto pro-crescita atteso dal taglio fiscale. E a favorire l’uscita effettiva dalla crisi, che per la maggioranza degli operatori economici è ancora di attualità visto che il ritorno ai redditi del 2006 rimane per molti un obiettivo ancora ambizioso.
Una prova arriva dai dati sulle dichiarazioni fiscali delle partite Iva, diffusi la settimana scorsa dal dipartimento Finanze. I redditi del 2016, fotografati dai nuovi dati, suonano le corde della ripresa, con un aumento rispetto all’anno prima. Ma se si allarga lo sguardo per abbracciare l’orizzonte della crisi, facendo il confronto con i dati di 10 anni fa, il panorama cambia drasticamente. In termini reali, cioè tenendo conto dell’inflazione del periodo, i redditi 2016 sono inferiori del 7,6% rispetto a 10 anni prima, e la flessione sfiora l’11% nel caso del commercio e supera il 9% per le attività di servizi.
Professionisti, artigiani e commercianti, insomma, non solo hanno vissuto la parabola che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi dieci anni, ma hanno subito in genere colpi ancora più forti. Due numeri spiegano tutto: la media complessiva indica che in termini reali (cioè considerando l’inflazione) il reddito 2016, fotografato dai nuovi dati del ministero, ha perso il 7,6% rispetto al 2006. Nel caso del commercio, il più colpito fra i quattro macro-settori in cui è diviso il mondo degli studi di settore, la flessione è di quasi 11 punti; appena meglio è andato al settore dei servizi (dal turismo al noleggio, dalle riparazioni alle software house), che ha limitato la perdita reale al 9,1%, mentre i professionisti registrano un -7,8% e artigiani e Pmi un -6,3 per cento.
E non è tutto. I dati medi nelle dinamiche disegnate dagli studi di settore sono influenzati dal fatto che, negli anni, sono state introdotte varie forme di tassazione agevolata per le partite Iva con ricavi più bassi, che nel tempo ha contribuito a ridurre di 350mila persone la platea degli studi di settore. La loro “uscita di scena” ha quindi alzato ricavi e redditi medi di chi è rimasto soggetto agli studi: senza questo elemento, quindi, il confronto decennale offrirebbe numeri ancora più crudi.
È a un contesto di questo tipo che si rivolge il capitolo dedicato alle partite Iva dal «contratto di governo». Guardano prima di tutto a questo mondo infatti le proposte di abolizione degli studi di settore (ma mantenendo forme di incentivo alla fedeltà fiscale) e redditometro, che si accompagnano ovviamente alla bandiera della Dual Tax. In effetti, numeri alla mano, l’introduzione del sistema a due aliquote (15% fino a 80mila euro, 20% sopra) farebbe balzare in alto il reddito disponibile effettivo, quello che rimane dopo il pagamento delle tasse. Anche qui un paio di esempi aiutano. Al professionista ritratto dalle medie degli studi di settore, infatti, l’Irpef di oggi lascia in tasca 31.022 euro all’anno, cioè il 7,7% in meno di dieci anni fa. Con la tassa piatta (o semi-piatta), invece, la cifra salirebbe a 37.145, con un guadagno del 10,5% rispetto al 2006. E lo stesso ribaltamento di prospettiva tornerebbe più o meno in tutti i settori.
La generosità della futuribile riforma fiscale ha un ovvio contrappunto nel taglio che imporrebbe alle entrate fiscali, aprendo un problema ancora tutto da risolvere. Le attese alimentate dall’effetto annuncio, però, spingono l’avvio della riforma fiscale nelle prime posizioni dell'agenda delle misure da studiare in vista della legge di bilancio.
Negli ultimi anni, l’attenzione fiscale alla crisi delle partite Iva si è tradotta in una lunga serie di «correttivi congiunturali», che hanno abbassato via via, in forme diverse caso per caso, le richieste su ricavi e redditi per essere considerati «congrui», e quindi “promossi” dal sistema. L’ultima mossa in questo senso arriva dall’addio ai vecchi studi di settore, che dall’anno prossimo dovrebbero essere sostituiti dagli Isa, gli «indici sintetici di affidabilità» che si tradurrebbero in vere e proprie pagelle in grado di azzerare i controlli per i contribuenti con i voti migliori. Resta da capire, però, come il nuovo governo vorrà intervenire sul punto.
Ma per calibrare meglio analisi e interventi sarà utile andare oltre le medie generali, perché la corrente contraria dell’economia ha avuto effetti diversificati nei vari settori di attività.
Il dato emerge chiaro dai numeri sui redditi delle principali categorie professionali. Nelle graduatorie sui guadagni, i notai restano naturalmente in prima posizione, ma primeggiano anche per il taglio (-53% nel reddito medio reale) subito in questi dieci anni con l’addio a una serie di esclusive e il crollo delle compravendite immobiliari. La crisi dell’edilizia aiuta a spiegare anche la dieta robusta subita dai redditi delle professioni tecniche, dove le perdite oscillano fra il -32,5% registrato dagli architetti e il meno 22,3% dei geometri. Anche commercialisti, consulenti del lavoro e avvocati sono andati mediamente incontro a un impoverimento importante, lasciando sull’altare della crisi quasi un quarto del reddito reale.
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