
Giulio Natta vince il Nobel per la Chimica nel 1963, ultimo italiano a ottenere questo riconoscimento in materia scientifiche (chimica, fisica, medicina o fisiologia) per il lavoro svolto in Italia. L'università dei suoi tempi era un mondo d'elite, con iscrizione riservata al 5% circa dei giovani tra i 19 e i 25 anni, sullo sfondo di un modesto 1% di laureati nella popolazione nazionale. Con l'approvazione delle legge Codignola nel 1969 inizia in Italia l'accesso di massa all'Università. Negli anni 60 l'Italia investe in educazione e formazione universitaria a livelli che la pongono davanti a Francia e Germania, e quinta tra i paesi del G7. Nei decenni seguenti lo sviluppo nella formazione universitaria cresce impetuosamente, fino al superamento del 40% di giovani iscritti nel 2008, attestandosi su valori simili nel seguente decennio. Nel contempo la percentuale di iscritti a facoltà tecnico-scientifiche e a medicina cresce fino a diventare la maggioranza, ribaltando il trend nazionale negli anni 60-80, che invece aveva visto dominare le materie umanistiche. Cresce nel contempo la presenza femminile tra la popolazione studentesca, dal 15-20% degli anni intorno alla Seconda Guerra fino alla maggioranza, raggiunta negli anni Novanta, e ulteriormente consolidata negli anni più recenti.
La reputazione internazionale dell'università e della ricerca in Italia riflette queste trasformazioni epocali, evolvendosi da una percezione di qualità spesso eccellente ma ad accesso limitato a una realtà consona con il ruolo di un paese di prima fascia mondiale, per quanto riguarda l'accessibilità alla popolazione in generale, la presenza femminile e l'equilibrio tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche. Da una prospettiva statunitense, un grande, ulteriore merito del Sistema Italia è il basso costo degli studi universitari, seppure questo sia tra i più alti in Europa. E non c'è alcun dubbio che l'Italia goda della presenza di non pochi straordinari ricercatori nel suo mondo accademico, riconosciuti e invidiati nel mondo intero.
In premio alla democratizzazione dell'accesso universitario, e in funzione delle grandi eccellenze storiche e presenti, il Sistema Italia si può certamente considerare parte della prima fascia dell'accademia mondiale, e grande risorsa potenziale per il Paese. Tuttavia, il confronto con i paesi del G7 oggi resta impietoso: ultimi per investimenti pubblici nella ricerca come percentuale di Pil (praticamente dimezzati rispetto agli anni 60), ultimi per dottorati di ricerca (solo lo 0,6%, dato peggiore in Europa), ultimi per premi Nobel in materie scientifiche, nessuna università italiana tra le prime 100 al mondo nella classifica Times Higher Education (mentre gli altri G7 ne occupano complessivamente 68), unici a nominare ministri deputati alla ricerca e all' università che non abbiano mai avuto esperienza personale dell una e/o dell'altra, unici nel conferimento di inspiegabili onori politici per “meriti scientifici”, unici nel colpevole disinteresse governativo nei riguardi dell' Accademia Nazionale delle Scienze (normalmente gloria e vanto nei paesi guida del mondo), ultimi per produzione di ricchezza per il Paese tramite la formazione di aziende spinoff.
La carenza cronica di investimenti in ricerca e infrastruttura è attribuibile a fattori esterni al mondo accademico nazionale, quali le miopi priorità della politica, e pure il problema dell'integrazione nel tessuto economico dipende principalmente da altri fattori frenanti all'interno del Sistema Italia. Resta però anche vero che la reputazione dell'università italiana soffre parallelamente di mali autoinflitti, quali la rigidezza disciplinare, la scarsa meritocrazia, lo sviluppo di pratiche nepotistico-clientelari nei concorsi e l' ingerenza della politica, fenomeno nato negli anni Sessanta e espansosi in maniera vertiginosa nei decenni seguenti, e che ha portato interi settori disciplinari a essere dominati da affiliazioni politiche piuttosto che virtù intellettuali e scientifiche.
In questo quadro difficile potrebbe essere facile lasciarsi andare al disfattismo, al pessimismo storico, alla tentazione di fuga. Invece, giova osservare che, come dimostrato recentemente da Ambrosetti, per quanto riguarda il numero di citazioni per pubblicazione, gli scienziati italiani sono primi al mondo, e così pure per numero di pubblicazioni per ricercatore. Sebbene questa statistica includa italiani operanti sia in Italia che all'estero, chiaramente se ne conclude che la formazione al pensiero e la creatività intrinseca di chi si forma nel Sistema Italia sono di livello assoluto. E l'Italia si sta dimostrando capace di innovazione strutturale, con i notevoli successi dell' Istituto Italiano di Tecnologia, e quanti se ne possono augurare a Human Technopole, pure nelle polemiche a questi associate.
Per me, la misura principale della straordinaria potenza della ricerca italiana sono però i suoi giovani. Molti ne vedo, da osservatore esterno, molti ne ho visti, in 36 anni di Stati Uniti, molti ne ho valutati, e accompagnati come mentore nelle loro carriere in Italia e all'estero. Li ho visti competere con il resto del mondo, e inanellare successi straordinari, arrivando ai massimi livelli. Alessandro Grattoni, ingegnere del Politecnico di Torino, ora dirige il nostro Dipartimento di Nanomedicina, primo al mondo, e sta portando all' uso clinico nuove tecnologie farmacologiche contro l' Aids, le sindromi metaboliche, il cancro. Ha condotto quattro esperimenti nello spazio, sulla International Space Station, e altri cinque sono in partenza: nessuno al mondo ha mai fatto altrettanto. Nicola Marzari, uno dei principali fisici computazionali del pianeta, mio ex studente in un liceo di Udine: una carriera strepitosa a Oxford, all'Mit, ora a Losanna. E Bruna Corradetti, esperta marchigiana di medicina rigenerativa, ora in ritorno negli Usa, mentre vedo arrivare nuovi, grandi talenti, come Clara Mattu, ingegnere biomeccanico dalla Sardegna, Sara Nizzero, biofisica da Vicenza, Francesca Taraballi, biomaterialista da Milano.
Questi sono i talenti che conosco meglio, perché ho il privilegio di osservarne l'eccellenza in prima persona, ma ce ne sono tanti, tanti altri in Italia, negli Usa, nel mondo. I giovani italiani si distiguono, certamente. Sono spesso tra i migliori al mondo, come sempre nella nostra storia. Spesso, ma non sempre, si costruiscono il successo all' estero. I loro successi sono però sempre basati su quanto hanno appreso nel Sistema Italia.
Questa ricchezza di talento e di tradizione, insieme all'infrastruttura di formazione e l'accesso democratico sviluppato nel cinquantennio scorso, può e deve essere il motore, la forza trainante della vis competitiva del Paese. La competitività nel mondo dell'economia dipende ormai strettamente dalle capacità di innovazione, di ricerca e sviluppo. Senza una grande crescita nei successi in questi settori, l'Italia è a grande rischio di retrocessione a ranghi di rilevanza periferica, con le devastanti conseguenze sul mondo del lavoro che purtroppo già si possono intravvedere.
Il Sistema Italia ha le soluzioni in mano, e in primis i nostri giovani. Allora, l'ovvia ma appassionata esortazione è a investire in loro, nella loro ricerca, nella loro capacità di fare innovazione. Impariamo dai nostri errori storici, spianiamo loro la strada, investendo con fiducia, e aiutando la nostra struttura universitaria a rinnovarsi e guarirsi. Il Paese può porsi con fiducia nelle mani della nuova generazione. Ma della mia, non ne sono altrettanto sicuro.
L'autore è pioniere della ricerca nanotech e della bioingegneria applicata alla medicina, presidente e Ceo dello Houston Methodist research institute
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