
Nel 1965, quando comparve nelle edicole il primo numero del Sole 24 Ore, l’Italia era nel pieno di un boom economico straordinario. Dal 1950 al 1973 il Pil per ora lavorata crebbe a un tasso medio annuo del 5 per cento, un record storico. Una crescita vigorosa che contrasta nettamente con l’andamento scadente dei decenni precedenti.
Quella crescita sostenuta contrasta nettamente anche con gli ultimi 25 anni, quando il Pil per ora lavorata ha smesso di crescere. Qualunque osservatore dell’economia italiana deve interrogarsi per prima cosa sui motivi di questa stagnazione. Le conseguenze sono di vasta portata: il proseguimento della situazione, o al contrario un’inversione di rotta, avranno implicazioni profonde per la politica italiana e il futuro dell’Europa.
La mia opinione (https://press.princeton.edu/titles/8253.html) è che il boom e la successiva stagnazione siano semplicemente due facce della stessa moneta: le forze all’origine del successo precedente sono le stesse che hanno prodotto il recente insuccesso. L’Italia, è il ragionamento, ha potuto crescere rapidamente nel terzo quarto del XX secolo non solo perché era uscita dalla Seconda guerra mondiale in forte ritardo rispetto al Paese tecnologicamente più avanzato, con un reddito pro capite pari soltanto alla metà di quello statunitense, ma anche perché le istituzioni che aveva ereditato e sviluppato in quel periodo erano ideali per le circostanze dell’epoca. Il Paese aveva già una manciata di grandi aziende, fondate da famiglie illustri, capaci di emulare i metodi di produzione a forte intensità di capitale e produzione in serie sperimentati per primi dagli Stati Uniti. Aveva l’Iri, fondata nel 1934-1935, che consentiva allo Stato di fornire alle grandi società industriali di cui sopra fattori di produzione intermedi a buon mercato. Dopo poco creò l’Eni, per rifornirle di energia a prezzi bassi.
Il credito per espandere la capacità produttiva era messo a disposizione da un sistema finanziario dominato da banche controllate dallo Stato. L’élite politica lavorava insieme agli industriali e ai finanzieri per coordinare queste parti mobili. Tutti questi elementi erano particolarmente indicati per favorire la rincorsa alle nazioni più avanzate (il cosiddetto catching-up), dove la cosa che serve è incanalare risorse aggiuntive verso settori consolidati, usando tecniche collaudate.
L’Italia riuscì a mantenere la crescita fino a metà degli anni 90, perché la concorrenza dei prodotti di importazione era limitata, perché si poteva svalutare la lira per ripristinare la competitività e perché il Paese rimaneva a una certa distanza dalla frontiera tecnologica. Fare le solite cose nei soliti modi continuava a fruttare, anche se meno di prima, e garantiva livelli di produzione e crescita della produttività sostenuti, anche se non quanto nel terzo quarto del XX secolo.
Tutto questo cambiò negli anni 90, prima con l’euro, poi con l’intensificarsi della concorrenza cinese e soprattutto con la rivoluzione informatica. Dopo il 1995 la crescita della produttività negli Stati Uniti ebbe un’accelerazione, perché le aziende americane si riorganizzarono per sfruttare le nuove tecnologie. Fu proprio allora che l’economia italiana perse la sua magia, come hanno dimostrato Bruno Pellegrino e Luigi Zingales (https://voxeu.org/article/diagnosing-italian-disease).
La domanda è perché l’Italia non sia riuscita a capitalizzare la rivoluzione informatica. La risposta, a mio parere, sta nel disallineamento fra le istituzioni ereditate dal Paese e le necessità poste dalla nuova tecnologia. A metà degli anni 90, l’Italia si avvicinò alla frontiera tecnologica, affrontando la sfida dell’innovazione, e in particolare dello sviluppo e applicazione di nuovi sistemi informatici. Ma gli amministratori delle aziende possedute e controllate dalle grandi famiglie imprenditoriali, sia che si trattasse di manager professionisti sia che si trattasse di membri della famiglia, erano riluttanti a mettere a rischio questo patrimonio. Erano riluttanti a operare una riorganizzazione radicale per poter sfruttare al meglio le tecnologie informatiche. Gli investitori esterni potevano esercitare pressioni limitate, perché le scalate ostili e i voti di sfiducia da parte degli azionisti erano praticamente impossibili nel sistema italiano. Le aziende statali erano scarsamente incentivate a riorganizzarsi. Le banche, controllate o semplicemente condizionate dalle amministrazioni comunali e regionali, erano riluttanti a prestare soldi per finanziare progetti non collaudati, radicalmente nuovi. E i politici, poiché ricavavano vantaggi dai loro rapporti stretti con l’industria, non avevano nessun desiderio di alterare lo status quo.
Insomma, le stesse istituzioni – imprese familiari, aziende pubbliche e banche controllate dallo Stato – che avevano servito ottimamente l’economia nella fase del catching-up ora rappresentavano un ostacolo al proseguimento della sua espansione. Altri elementi della costellazione istituzionale, come un sistema dell’istruzione più bravo a formare una manciata di ingegneri qualificati che a produrre una forza lavoro con alti livelli di preparazione linguistica e matematica, un settore pubblico pesantemente indebitato con poche risorse da investire nella ricerca e un settore dei servizi protetto e vezzeggiato dalla regolamentazione, non facevano che aggravare il problema.
La partecipazione al mercato unico, e poi all’euro, sarebbe dovuta servire a scuotere l’Italia per farla uscire da questo equilibrio negativo. Esponendo le aziende a una concorrenza più accesa e rimuovendo la scorciatoia della svalutazione della lira avrebbero dovuto costringerle a nominare manager professionisti, installare nuovi sistemi informatici, riorganizzarsi e diventare più competitive a livello internazionale, per non rischiare di ritrovarsi fuori mercato.
La domanda è perché non siano state più numerose le aziende che hanno risposto a questo stimolo. La risposta, a nostro parere, è che l’ombra della storia è persistente. Gli assetti istituzionali che hanno servito ottimamente il Paese per mezzo secolo avevano messo radici forti ed era praticamente impossibile cambiare alcuni di questi assetti senza cambiare anche gli altri. Non puoi rafforzare la governance aziendale e i diritti degli azionisti senza riformare anche il sistema finanziario. Non puoi riformare il sistema finanziario senza limitare anche il coinvolgimento del Governo nell’economia. E così via. Ognuno di questi assetti prevalenti rappresenta un ostacolo al cambiamento degli altri.
Da qui discende la profonda insoddisfazione dell’elettorato italiano verso l’establishment politico. Invece di somministrare la terapia d’urto di cui l’economia ha bisogno, la classe politica, che ricava vantaggi meschini dal mantenimento dello status quo, è incentivata a difenderlo, perché i suoi esponenti beneficiano anch’essi delle «rendite» che procura alle aziende già presenti sul mercato. Sfortunatamente, non è affatto chiaro se le forze politiche emergenti, i partiti antiestablishment di destra e di sinistra, abbiano una percezione chiara del problema, o la volontà di proporre una soluzione. Li accomuna semplicemente un’indistinta insoddisfazione verso lo status quo. Non è una situazione propizia per un Paese che si dibatte in una crisi politica profonda.
Professore di Economia e Scienza politica all’Università di Berkeley
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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