
Lusso e design? Oppure cibi e vini? Niente di tutto questo. Se forse nell’immaginario collettivo sono queste le prime associazioni spontanee all’espressione “made in Italy”, il racconto reale è in realtà ben diverso: il cuore dell’industria italiana, così come il motore del suo export, è prima di tutto meccanico. Area per definizione vasta, che passa dai bolidi Ferrari ai raccordi per rubinetti, con un impatto decisivo sul Pil (7,7% del valore aggiunto), sull’export (216 miliardi, 48%), sull’occupazione (oltre un terzo della manifattura): senza la meccanica, che lo scorso anno ha prodotto un avanzo commerciale di 52 miliardi, il nostro bilancio globale sarebbe in rosso.
Settore che negli anni ha cambiato pelle, perdendo per strada in tutto o in parte alcuni dei big del passato, riorientandosi sull’export per sopravvivere. Affrancamento dalla domanda interna del resto necessario guardando ad esempio al settore auto: perché i due milioni di vetture prodotte in Italia da Fiat nel picco del 1989(il doppio rispetto al 1965), già alla vigilia della crisi erano crollate a 659mila unità, per poi toccare il minimo di 388mila nel 2013. Il comparto, come il resto dell’economia, ha pagato un dazio pesante alla crisi, cedendo fino al 2015 300mila addetti, prima di avviare nel biennio successivo un parziale recupero (ora siamo a -250mila), visibile nel grado di utilizzo della capacità produttiva, ormai in linea con il dato pre-crisi. Che tuttavia resta distante oltre 22 punti in termini di output. Perché se il numero di “giri” è soddisfacente, il “motore” è oggi di cilindrata inferiore, dopo l’ondata di fallimenti e chiusure che ha ridotto il perimetro del settore. Che in termini competitivi ha tra le proprie punte di diamante le diverse specializzazioni nei macchinari, dove in alcuni casi siamo leader mondiali assoluti. Come nella ceramica, che alla voce “import” presenta nei dati Istat uno strabiliante zero. Oppure nel packaging, dove da anni è un testa a testa Italia-Germania per la quota più alta nell’export globale.
O ancora nelle macchine utensili, dove il terzo posto globale nell’export diventa primato indiscusso nelle nicchie più sofisticate, quelle in cui ci si allontana dalle grandi serie e a contare è la customizzazione. Il piano 4.0 ha ora risvegliato il mercato interno, protagonista di una scossa evidente e quanto mai benvenuta, dato che l’età media dei nostri impianti era arrivata al record negativo di quasi 13 anni. L’inversione di rotta è avviata, visibile nel record storico del mercato interno dell’impiantistica (un miliardo in più rispetto al 2016) e nel primato dei robot, dove abbiamo il tasso di crescita più alto al mondo. I “cinesi” in questo settore adesso siamo noi.
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