
In una lettera a questo giornale della fine del 2014, l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan diede una lucida descrizione del problema italiano, identificando come punto di partenza «il riconoscimento dei suoi caratteri strutturali lungo due decenni di azione politica inadeguata», costellati di riforme mancate o non adeguatamente implementate.
«Cambiamenti annunciati, ma insufficienti per migliorare concretamente la vita delle persone, – scriveva Padoan - hanno indebolito la credibilità del nostro Paese nella comunità internazionale e alimentato la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni nazionali e comunitarie». Il problema della credibilità dell’azione politica appare nel suo duplice carattere: questione interna al paese e fattore critico nei rapporti con gli altri paesi.
Il tema “credibilità”, nei confronti dei cittadini e dei partner, è uno dei fattori più permanenti e più critici della storia italiana. Le conseguenze sono concrete per i cittadini, comportano tra l’altro costi più elevati per i debiti e minori investimenti dall’estero e alimentano una pericolosa reciproca incomprensione. Trump può tradire le regole globali e resuscitare il protezionismo; Londra può spararsi in un piede uscendo dalla Ue; la Catalogna può minacciare di smembrare la Spagna; la Polonia può svuotare la sua democrazia; le imprese cinesi possono accumulare debiti insostenibili; ma alla fine il problema su cui tutti gli analisti concordano, a Washington come a Berlino, resta il rischio Italia, ormai una specie di luogo retorico.
A forza di alimentare l’idea della scarsa credibilità dell’Italia, il problema è stato internalizzato dagli stessi italiani, è diventato un fattore della vita pubblica anziché un problema da risolvere e tende ad autorealizzarsi: minore fiducia, minore crescita, più debiti. Fino a confermare i dubbi di chi osserva da oltre confine.
Questa sfiducia viene forse da lontano: ben 71 governi dal 1943 in poi; deprezzamenti continui dal 1950 al 1999 che portarono la lira a un ottavo del proprio valore rispetto al marco tedesco; un debito pubblico troppo elevato; l’incapacità di esprimere progetti di legislatura e più in generale un’instabilità di riferimenti internazionali che risale al 1861. L’uso della storia può non essere corretto, un po’ come avviene con l’Argentina, che appena ha difficoltà finanziarie richiama in vita un passato di 200 anni scanditi da una dozzina di default. D’altronde, se si ricorda che a Londra i paesi della periferia europea nel 2010-2011 venivano chiamati “maiali”, sarebbe ingenuo considerare i giudizi discriminatori estranei al razionalismo della finanza.
L’esperienza degli ultimi dieci anni, segnati dalla crisi dell’euro, ha dato ai sentimenti di sfiducia una forma politica. Il sospetto tra i paesi europei si è istituzionalizzato nella definizione di “azzardo morale”, fino a ispirare l’intera filosofia dell’intervento pubblico nel corso della crisi: prima di tutto bisogna che ognuno curi da sé i propri problemi, anche se essi sono aggravati dai meccanismi non-lineari (contagio, sudden stops, clustering) di un’unione monetaria priva di unione politica. Solo una volta che i pericoli saranno in tal modo ridotti - si è deciso a maggioranza tra i governi - sarà possibile condividere il poco rischio che resterà.
Questa strategia non solo è stata poco utile, ha anche provocato danni, rinviando ogni volta le soluzioni cooperative. La mancanza di fiducia si è tradotta nell’accorciamento temporale della governance comune, ridotta a un esercizio di verifiche puntuali e di breve termine. La crisi non è stata affrontata attraverso politiche macroeconomiche adeguate, ma in un continuo e astioso negoziato di limiti ex-ante e di violazioni ex-post.
Le politiche strutturali sono scivolate in secondo piano anche perché il loro costo politico sul breve termine è maggiore delle altre. Ma la mancata soluzione dei problemi strutturali ha finito per radicare i danni. La disoccupazione è rimasta elevata anche con la ripresa, generando incertezza nel futuro soprattutto tra i giovani che si sono distaccati dai sentimenti di coesione europea.
Il linguaggio euroscettico si è sviluppato, in modo paradossale, proprio assecondando gli stessi errori della governance europea e occupandosi cioè anch’esso solo di allargare i margini della spesa pubblica nazionale, anziché della condivisione delle scelte europee tale da finanziare le riforme necessarie a incrementare la produttività dell’economia italiana.
A distanza di dieci anni dall’inizio della crisi, il tema della credibilità italiana continua a porsi con forme diverse ma con lo stesso errore di fondo: riformare l’economia italiana in modo da farla crescere è una forma di credibilità anche nei confronti dei partner, ma prima di tutto lo è nei confronti dei cittadini italiani. E le due cose, in avanti o all’indietro, cammineranno assieme.
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