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Dossier La «ri-evoluzione» dell’industria bancaria

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    Dossier | N. 22 articoliL’Italia che cambia

    La «ri-evoluzione» dell’industria bancaria

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    Dal porto sicuro del controllo pubblico e dei tassi bassi alle frontiere più esposte del mercato e della tecnologia. L’industria del credito negli ultimi cinquant’anni è stata sottoposta a uno choc competitivo che ha pochi eguali. In tutto il mondo ma soprattutto in Italia, dove ancora a metà anni 60 le banche componevano un «sistema» (e non era un modo di dire) in larga parte pensato e costruito nel Ventennio, di cui lo Stato era architetto e nella maggior parte dei casi anche padrone.

    Di quel mondo, un pezzo dopo l’altro, è caduto tutto. O quasi: le banche italiane, ormai privatizzate (salvo rare eccezioni) e talvolta fuse, combattono su un mercato europeo se non globale quanto a regole e player, con una selva di competitor digitali provenienti dal nulla o da mondi lontani. E combattono «ad armi pari», tiene a sottolineare il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, al Sole 24 Ore, nonostante la dieta prolungata dei tassi bassi – eredità, e non l’unica, della crisi finanziaria post Lehman – abbia pesantemente assottigliato la voce più significativa del proprio conto economico, cioè il margine d’interesse.

    Proprio al tema della profittabilità di settore, e alla sua evoluzione dal 1965 ai giorni nostri, qualche anno fa era dedicato un articolato studio condotto da Marco Onado, docente all’Università Bocconi ed editorialista del Sole, e Giuseppe Lusignani, docente all’Alma mater di Bologna e vicepresidente di Prometeia. Dall’analisi, suggestivamente intitolata «Il paradiso perduto», emergevano tre elementi, su tutti: «La focalizzazione sulla tradizionale attività di intermediazione di denaro, il dinamismo sui versanti della privatizzazione, del consolidamento e della modernizzazione, la resilienza rispetto alle diverse crisi finanziarie che si sono verificate nel mezzo secolo preso in esame». Tuttavia, chiosavano gli autori, «il settore sembra di nuovo tornato alla casella di partenza: il più importante driver della profittabilità è al centro di un inesorabile declino scaturito a metà anni ’80, e un’inversione di questa tendenza non pare alle viste. L’unico modo per migliorare significativamente l’ultima riga di bilancio saranno significative azioni di razionalizzazione, che apparentemente non sono state implementate negli ultimi anni di fusioni».

    Considerazioni, queste, formulate nel 2012, quando il Roe era precipitato sotto quota zero. A dispetto dei soli sei anni trascorsi da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata molta. Forse non così tanta come i dati relativi al primo trimestre 2018 sembrano suggerire (3,1 miliardi di utili aggregati per i primi otto istituti), ma «oggi quanto a competitività le banche italiane sono mediamente più avanti del Paese e assolutamente in grado di competere con il resto d’Europa. Non siamo più indietro, e il merito è della capacità mostrata dalle banche di innovarsi e di integrarsi». Due processi che dal 1965 a oggi sono andati prima in parallelo, e poi si sono, a loro volta, incrociati. Nell’anno della nascita del Sole 24 Ore, infatti, in Italia si contavano 1.287 banche, numero oggi più che dimezzato a quota 538, conferma evidente di un processo di razionalizzazione che in mezzo secolo – dalla privatizzazione delle banche pubbliche fino ai processi aggregativi che hanno generato Intesa Sanpaolo e UniCredit, per finire con le riforme delle popolari e del credito cooperativo - ha conosciuto decine di vittime illustri. E che ormai, almeno dal punto di vista quantitivo, è alle battute finali: a fine anno, completata la riforma del credito cooperativo che ha visto la polarizzazione su Iccrea e Cassa centrale banca, gli istituti ormai saranno solo più un centinaio.

    Ben più complesso, e forse anche tormentato, il processo che ha portata a ripensare l’identità dell’industria bancaria: qui può risultare più utile citare il numero degli sportelli, che nel 1965 si contavano in 10.085 e a fine 2016 erano diventati 27.300; la rete fisica, termometro fedele del radicamento territoriale (con tutti i suoi pro e i suoi contro) e dell’evoluzione del modello di business dei singoli intermediari, oggi è molto più ramificata che a metà anni 60, e tuttavia in drastico e rapido ridimensionamento. La tecnologia, insieme all’ossessiva (e inevitabile) attenzione ai costi, da anni guidano un processo che sta cambiando la forma dell’industria bancaria. E in cui l’Europa ormai non fa solo da sfondo ma è diventata uno degli attori protagonisti del processo di cambiamento: l’asset quality review condotta sulle principali banche del continente a metà 2014, anticamera della Vigilanza unica affidata alla Bce (dal primo novembre 2014) e dell’entrata in vigore delle nuove norme sui salvataggi bancari con annesso bail in (dal 2016) ha segnato una svolta epocale. Oggi è Francoforte che controlla direttamente i primi 120 istituti europei, una decina quelli italiani, e che coordina l’attività di vigilanza condotta dalle banche centrali nazionali su quelli più piccoli: è in Bce che vengono stabilite le soglie minime patrimoniali, si fissa l’asticella per lo smaltimento degli Npl e si monitora la redditività.

    Un pressing, con finalità (formalmente) preventive ma nei fatti asfissiante, che – combinato con quello tecnologico – impone alle banche di accelerare ancora sulla strada dell’innovazione. Mediando con un contesto che, però, non si è trasformato con la stessa rapidità. Non poteva essere altrimenti, vista la storica dipendenza dal credito di un’economia che negli anni 70 vedeva il leverage medio delle imprese all’80%: quegli eccessi sono lontani e oggi siamo intorno al 40%, ma «le imprese continuano a essere molto importanti per le banche italiane», osserva Giorgio Gobbi, capo del servizio Stabilità finanziaria della Banca d’Italia. Basti pensare, ricorda, che «in Italia i prestiti alle imprese rappresentano il 46% dello stock degli impieghi al settore privato, nell’area dell’euro il 39%, in Francia il 41%». Quanto basta a dimostrare che il processo non ha solo valenza finanziaria o industriale, ma strategica e quindi politica: dai tempi, e dai modi, del riassetto del credito dipenderà il futuro dell’economia italiana.

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