
Vista con gli occhi delle statistiche internazionali, l’Italia non può volare nel mondo dell’innovazione. Proprio come il vecchio e controverso calabrone che è evidentemente troppo pesante per quelle piccole ali, così l’Italia col debito pubblico troppo grosso e con le aziende troppo piccole ha poco da investire in ricerca e sviluppo. Quello storico dato dell’1,35% del Pil dedicato alla ricerca in Italia, peraltro non si muove molto nei numeri dell’Istat: sicché l’Italia resta nelle posizioni medio-basse della classifica Ocse, superata da tutte le grandi economie. Eppure, l’Italia a modo suo innova. E almeno un fatto lo dimostra: le esportazioni italiane non cessano di aumentare dal 2008, anno della grande crisi, hanno ormai superato i 450 miliardi di euro e raggiungono le massime dimensioni in alcune specializzazioni - dalla meccanica fine all’automazione industriale, dall’indotto dell’auto alla farmaceutica - che non possono restare competitive senza innovare e senza fare ricerca.
Quali possono essere le cause di questa apparente contraddizione? Per la verità, sappiamo bene quali non sono le cause. Innanzitutto, la causa non è una sapiente conoscenza delle opportunità offerte dalla tecnologia digitale. Dal punto di vista digitale, l’Italia resta un nano, come registrano le numerose classifiche dedicate monitorare la roadmap chiamata “agenda digitale europea”. Non c’è quasi nessuna di quelle classifiche - che parlano di commercio elettronico e di infrastrutture di telecomunicazioni, di digitalizzazione delle imprese e della pubblica amministrazione, e molto altro - dove l’Italia stia meglio che al terz’ultimo posto in Europa. In secondo luogo, la causa non è nell’eccessivo costo del lavoro dei tecnici e dei ricercatori: anzi, a quanto pare queste variabili stanno ben al di sotto della media europea, con per esempio scienziati dei dati che prendono un terzo di quanto guadagnano nel Regno Unito. In terzo luogo, l’Italia non ha una pessima scuola: Politecnici e Bocconi si fanno notare nelle classifiche internazionali, ma anche Bologna, Padova, Pisa e altre università da diversi punti di vista si piazzano abbastanza bene, considerato il decennio di tagli alle risorse che hanno attraversato. Il calcio italiano sta peggio.
E dunque di che si tratta? Non è facile comprendere l’Italia, prima di tutto per questioni di percezione. Statisticamente, l’Italia non esiste: ci sono piuttosto tre o quattro Italie molto diverse tra il sud e il nord, tra l’est e l’ovest. Alcune di queste Italie sono più comparabili di altre ai migliori paesi europei. Storicamente, del resto, l’Italia è sempre stata un po’ distratta sulle sue eccellenze tecnologiche: non a caso, come nel 1965 poteva vantare una posizione di primissimo piano tra gli esploratori dello spazio e tra i costruttori di computer pur avendo in mente tutt’altro sul piano industriale, così oggi ha ottime posizioni internazionali nella robotica e nella sensoristica ma continua a dedicare un’enorme attenzione alle pur importanti questioni delle acciaierie e delle compagnie aeree da salvare.
Probabilmente, aveva ragione Andrea Bonaccorsi, docente a Pisa, quando in un suo paper ipotizzò l’esistenza di un “sommerso” della ricerca in Italia. In mancanza di incentivi fiscali, le risorse che scoprono saperi sconosciuti innovando i processi in fabbrica e i prodotti nella mente degli imprenditori o negli studi di design non vengono classificate come destinate ai ricercatori. E le relazioni “personali” tra imprenditori e universitari non si traducono necessariamente in attività registrate nei conti economici della ricerca. Infine, se le aziende sono troppo piccole non hanno interesse a creare vasti patrimoni di brevetti che non riuscirebbero a difendere dai giganti internazionali e tendono a preferire il segreto industriale o l’open source che non si vedono nelle statistiche.
Se questo può aver funzionato nella stagione gloriosa degli anni Sessanta e nell’epoca di passaggio del nuovo millennio, però, non funzionerà necessariamente in futuro. Questo sistema poco formalizzato di fare ricerca e innovazione non attira capitali di ventura. Quindi non accelera. Restando sempre ai livelli bassi della filiera innovativa, condannando il sistema al suo eterno nanismo. Riducendo l’accumulazione del sapere e mantenendo il sistema fragile. Il volo incerto del calabrone può anche essere affascinante. Ma non è mai rassicurante.
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