
All’inizio degli Anni 60 la ricchezza privata degli italiani si misurava con il possesso di poche, semplici cose: telefono, frigorifero, televisore, lavatrice. Una quaterna che segnava lo spartiacque tra le famiglie normali e quelle benestanti. Oggi, quasi sessant'anni dopo, il mancato possesso delle stesse cose indica un’altra soglia, ben più pericolosa: quella della povertà.
Non è una verità assoluta, ma indica un elemento che dovremo tenere ben presente consultando i dati che troverete in queste pagine: i numeri dicono tutto, ma spiegano poco se considerati in modo asettico. Perché la percezione della ricchezza e della povertà, e quindi dello stato di benessere complessivo del Paese, è spesso mediata da valutazioni del tutto soggettive, distanti dalle curve disegnate dagli economisti.
Il nostro cammino nell’evoluzione italiana parte, non per caso, dal 1965: l’anno della fusione tra «Il Sole» e il «24 Ore», con la nascita del quotidiano che da allora trovate nelle edicole. La fotografia di quegli anni ci racconta di un’Italia che stava uscendo dal periodo di crescita straordinaria del boom economico, per addentrarsi in una fase in cui il Paese doveva fare i conti con una differenza sempre più marcata tra Nord e Sud, con una conflittualità sociale crescente all’interno delle fabbriche e con una altrettanto difficile gestione delle aree metropolitane del Nord, dove si erano concentrate grandi masse di popolazione richiamate dallo sviluppo industriale (interessante, a questo proposito, l'articolo di Paolo Bricco nella pagina seguente dedicato alle mutazioni dei triangoli industriali).
La vera trasformazione avviata in quegli anni e culminata nell’ultimo decennio del secolo scorso, che i numeri raccontano solo in parte, è quella della convergenza del reddito pro capite tra Paesi ricchi e meno ricchi: basti pensare che negli Anni 70 il reddito medio di un italiano era all’incirca il 65% di quello di un americano, ma aveva raggiunto l’80% circa vent’anni dopo. Ed è proprio in quegli anni, intorno al 1989, che la classe media raggiunge il suo momento di massimo “splendore”, arrivando a rappresentare oltre la metà della popolazione e grosso modo la metà della ricchezza complessivamente detenuta dalle famiglie.La trasformazione da società agricola a industriale è un processo ormai compiuto, con una quota che si è abbassata progressivamente fino al 2% del 2008 (nel 1965 si era ancora oltre l'11%).
Una condizione che tuttavia, come ricorda Carlo Favero (direttore del Dipartimento Finanza della Bocconi) si è formata pagando poche tasse a fronte di una spesa pubblica utilizzata per far crescere l’economia in modo poco attento alle generazioni future. L’accumulo della ricchezza dopo l’abbandono di Bretton Woods, nel ventennio 70-90, non a caso coincide con la crescita del debito pubblico. Ed è proprio questo modello di sviluppo che sta alla radice dei nostri problemi attuali.
Scorrendo rapidamente i grafici di queste pagine troverete precise variazioni in corrispondenza di eventi straordinari: come la crisi petrolifera del 1973/74 che, per la prima volta nella storia, costrinse il mondo intero a fare i conti con un aumento improvviso e violento della materia prima che, di fatto, sosteneva l'intero sistema. Oppure come l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 o, ancora, il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008 con l’avvio della crisi più lunga mai attraversata dalle economie moderne.
Arriviamo ai giorni nostri con una fotografia del Paese che sembra essersi riavvicinata, anche se di poco, a quella degli Anni 60 invece di proseguire la strada dell’evoluzione. La classe media ha perso posizioni, l’agricoltura è tornata a rappresentare una via d’uscita dalla crisi (nonostante la battuta d'arresto subita nel 2016), i dati macroeconomici parlano di una crescita costante dei livelli di povertà.
Ma, visto che i dati vanno interpretati, è giusto dire che su quest’ultimo elemento influisce in modo decisivo l’intensificarsi dei fenomeni migratori. La quota di poveri, in questo segmento, è passata dal 10% degli Anni 90 (sovrapponibile a quello della restante popolazione) a oltre il 30% degli ultimi anni.
Le sfide dell’Italia che cambia non si giocheranno quindi solo sul digitale e sulle eccellenze, ma anche su politiche di riequilibrio. Cosa che, guardando alla storia passata, dovremmo saper fare piuttosto bene.
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