
Il primo segnale arriva dai telefoni. Che non squillano più. Alla fine del 2008, in poche settimane per migliaia di aziende italiane il mercato sparisce, i clienti si defilano, anche ordini già piazzati sono cancellati.
Per l’allora quinta potenza industriale mondiale (ora settima), sesta nell’export (ora ottava), è uno shock mai sperimentato: i ricavi arretrano di 175 miliardi (-19%), l’utilizzo della capacità produttiva crolla di dieci punti al 65%, inizia l’impennata dei fallimenti (dai 6000 del 2008 ai 15mila del 2014), i pagamenti tra imprese si inchiodano, con i gravi ritardi triplicati al 16%.
La lunga crisi cancella quasi un quinto dell’apparato industriale e chi può, visto il crollo del mercato interno, si getta sull’export. Con effetti evidenti di sistema: in rapporto all’output industriale le vendite estere nel 2008 valevano il 36%, ora sfiorano il 50% mentre l’avanzo commerciale macina anno dopo anno nuovi record: nel ’65 l’export valeva il 14,3% del Pil, ora il livello è più che doppio
Gli ultimi dati (Prometeia) indicano per il 2019 la chiusura del gap nei ricavi (in 10 anni intanto il gap cumulato è di mille miliardi di euro) , mentre in parallelo, per effetto della profonda selezione operata dalla crisi, si verifica un lieve ampliamento delle dimensioni medie, un recupero nei margini, un irrobustimento patrimoniale, una crescita nel peso delle qualifiche più elevate sia tra gli impiegati che tra gli operai. La ripresa è avviata e diventa via via più robusta nel 2017, anno della svolta dal lato degli investimenti grazie al piano Industria 4.0: mercato interno di robot e macchinari toccano il nuovo record storico.
Rinascita che tuttavia non risolve i principali nodi del sistema. Anche se l’attività innovativa resta in parte inespressa e sommersa, è evidente che qui l’Italia debba accelerare: Bosch e Siemens da sole brevettano quasi quanto l’intero nostro Paese. Tra i limiti vi è certamente la dimensione d’impresa. In un mercato diventato globale anche il presidio delle nicchie, punto di forza della nostra industria, richiede stazze crescenti e del resto tutti gli indicatori evidenziano performance mediamente superiori al lievitare della dimensione: il valore aggiunto per addetto di un “big” (oltre 250 addetti) è quasi triplo rispetto a quello di una micro-azienda.
Un problema, dato che nella manifattura la stazza media italiana è di poco più di nove addetti per impresa, in Germania 35. Un confronto diretto che ci vede perdenti sia in termini di produttività media (anche se passando dall’economia all’industria il gap si riduce) che di Clup, cresciuto per noi in 16 anni del 32,7% oltre il livello tedesco. A dispetto di tutto ciò il sistema resta competitivo, difendendo la quota di mercato mondiale anche in presenza dello tsunami cinese. I distretti continuano a crescere oltre la media ma questi bacini di competenze e flessibilità oggi sono messi in discussione, perché in un mondo digitale la prossimità fisica conta fino ad un certo punto. D’altra parte, tra i punti di forza vi è proprio l’articolazione produttiva, con una miriade di Pmi formalmente impegnate sul mercato interno, in realtà esportatrici indirette attraverso medie imprese fortemente internazionalizzate, e persino più efficienti in media rispetto alle realtà di Francia e Germania. Il valore aggiunto manifatturiero rispetto al Pil risale al 16%, anche se il livello pre-cris i (17,5%) resta lontano. L’indice della produzione a fine 2017 era ancora 12 punti distante dalla media Ue, solo Grecia e Cipro fanno peggio. Gli ultimi due anni raccontano però un film diverso, e infatti ribasando gli indici al 2015 siamo in linea con gli altri.
Girando per le aziende sono poi visibili i cambiamenti avviati con Industria 4.0: tra carrelli agv, macchinari remotati su ipad, esoscheletri e robotica collaborativa, intere linee connesse e digitalizzate. Fenomeno cavalcato dai big, ma anche da una nuova generazione di Pmi innovative e start-up che inizia ad affacciarsi sul mercato. Transizione faticosa eppure possibile. Come accade a Lomazzo, nel parco tecnologico ComoNext, che già ospita 130 imprese. Tra produttori di grafene, biomateriali, esperti ict. Negli anni ’60, qui, il vecchio cotonificio ora riconvertito a incubatore occupava mille addetti. Cifra che a breve sarà raggiunta e superata.
Il primo segnale arriva dai telefoni. Che non squillano più.
Alla fine del 2008, in poche settimane per migliaia di aziende italiane il mercato sparisce, i clienti si defilano, anche ordini già piazzati sono cancellati.
Per l’allora quinta potenza industriale mondiale (ora settima), sesta nell’export (ora ottava), è uno shock mai sperimentato: i ricavi arretrano di 175 miliardi (-19%), l’utilizzo della capacità produttiva crolla di dieci punti al 65%, inizia l’impennata dei fallimenti (dai 6000 del 2008 ai 15mila del 2014), i pagamenti tra imprese si inchiodano, con i gravi ritardi triplicati al 16%.
La lunga crisi cancella quasi un quinto dell’apparato industriale e chi può, visto il crollo del mercato interno, si getta sull’export. Con effetti evidenti di sistema: in rapporto all’output industriale le vendite estere nel 2008 valevano il 36%, ora sfiorano il 50% mentre l’avanzo commerciale macina anno dopo anno nuovi record.
E adesso dove siamo?
Gli ultimi dati (Prometeia) indicano per il 2019 la chiusura del gap nei ricavi (in 10 anni intanto il gap cumulato è di mille miliardi di euro) , mentre in parallelo, per effetto della profonda selezione operata dalla crisi, si verifica un lieve ampliamento delle dimensioni medie, un recupero nei margini, un irrobustimento patrimoniale, una crescita nel peso delle qualifiche più elevate sia tra gli impiegati che tra gli operai. La ripresa è avviata e diventa via via più robusta nel 2017, anno della svolta dal lato degli investimenti grazie al piano Industria 4.0: mercato interno di robot e macchinari toccano il nuovo record storico.
Rinascita che tuttavia non risolve i principali nodi del sistema. Anche se l’attività innovativa resta in parte inespressa e sommersa, è evidente che qui l’Italia debba accelerare: Bosch e Siemens da sole brevettano quasi quanto l’intero nostro Paese. Tra i limiti vi è certamente la dimensione d’impresa. In un mercato diventato globale anche il presidio delle nicchie, punto di forza della nostra industria, richiede stazze crescenti e del resto tutti gli indicatori evidenziano performance mediamente superiori al lievitare della dimensione: il valore aggiunto per addetto di un “big” (oltre 250 addetti) è quasi triplo rispetto a quello di una micro-azienda.
Un problema, dato che nella manifattura la stazza media italiana è di poco più di nove addetti per impresa, in Germania 35. Un confronto diretto che ci vede perdenti sia in termini di produttività media (anche se passando dall’economia all’industria il gap si riduce) che di Clup, cresciuto per noi in 16 anni del 32,7% oltre il livello tedesco. A dispetto di tutto ciò il sistema resta competitivo, difendendo la quota di mercato mondiale anche in presenza dello tsunami cinese. I distretti continuano a crescere oltre la media ma questi bacini di competenze e flessibilità oggi sono messi in discussione, perché in un mondo digitale la prossimità fisica conta fino ad un certo punto. D’altra parte, tra i punti di forza vi è proprio l’articolazione produttiva, con una miriade di Pmi formalmente impegnate sul mercato interno, in realtà esportatrici indirette attraverso medie imprese fortemente internazionalizzate, e persino più efficienti in media rispetto alle realtà di Francia e Germania. Il valore aggiunto manifatturiero rispetto al Pil risale al 16%, anche se il livello pre-cris i (17,5%) resta lontano. L’indice della produzione a fine 2017 era ancora 12 punti distante dalla media Ue, solo Grecia e Cipro fanno peggio. Gli ultimi due anni raccontano però un film diverso, e infatti ribasando gli indici al 2015 siamo in linea con gli altri.
Girando per le aziende sono poi visibili i cambiamenti avviati con Industria 4.0: tra carrelli agv, macchinari remotati su ipad, esoscheletri e robotica collaborativa, intere linee connesse e digitalizzate. Fenomeno cavalcato dai big, ma anche da una nuova generazione di Pmi innovative e start-up che inizia ad affacciarsi sul mercato. Transizione faticosa eppure possibile. Come accade a Lomazzo, nel parco tecnologico ComoNext, che già ospita 130 imprese. Tra produttori di grafene, biomateriali, esperti ict. Negli anni ’60, qui, il vecchio cotonificio ora riconvertito a incubatore occupava mille addetti. Cifra che a breve sarà raggiunta e superata.
Il primo segnale arriva dai telefoni. Che non squillano più.
Alla fine del 2008, in poche settimane per migliaia di aziende italiane il mercato sparisce, i clienti si defilano, anche ordini già piazzati sono cancellati.
Per l’allora quinta potenza industriale mondiale (ora settima), sesta nell’export (ora ottava), è uno shock mai sperimentato: i ricavi arretrano di 175 miliardi (-19%), l’utilizzo della capacità produttiva crolla di dieci punti al 65%, inizia l’impennata dei fallimenti (dai 6000 del 2008 ai 15mila del 2014), i pagamenti tra imprese si inchiodano, con i gravi ritardi triplicati al 16%.
La lunga crisi cancella quasi un quinto dell’apparato industriale e chi può, visto il crollo del mercato interno, si getta sull’export. Con effetti evidenti di sistema: in rapporto all’output industriale le vendite estere nel 2008 valevano il 36%, ora sfiorano il 50% mentre l’avanzo commerciale macina anno dopo anno nuovi record.
E adesso dove siamo?
Gli ultimi dati (Prometeia) indicano per il 2019 la chiusura del gap nei ricavi (in 10 anni intanto il gap cumulato è di mille miliardi di euro) , mentre in parallelo, per effetto della profonda selezione operata dalla crisi, si verifica un lieve ampliamento delle dimensioni medie, un recupero nei margini, un irrobustimento patrimoniale, una crescita nel peso delle qualifiche più elevate sia tra gli impiegati che tra gli operai. La ripresa è avviata e diventa via via più robusta nel 2017, anno della svolta dal lato degli investimenti grazie al piano Industria 4.0: mercato interno di robot e macchinari toccano il nuovo record storico.
Rinascita che tuttavia non risolve i principali nodi del sistema. Anche se l’attività innovativa resta in parte inespressa e sommersa, è evidente che qui l’Italia debba accelerare: Bosch e Siemens da sole brevettano quasi quanto l’intero nostro Paese. Tra i limiti vi è certamente la dimensione d’impresa. In un mercato diventato globale anche il presidio delle nicchie, punto di forza della nostra industria, richiede stazze crescenti e del resto tutti gli indicatori evidenziano performance mediamente superiori al lievitare della dimensione: il valore aggiunto per addetto di un “big” (oltre 250 addetti) è quasi triplo rispetto a quello di una micro-azienda.
Un problema, dato che nella manifattura la stazza media italiana è di poco più di nove addetti per impresa, in Germania 35. Un confronto diretto che ci vede perdenti sia in termini di produttività media (anche se passando dall’economia all’industria il gap si riduce) che di Clup, cresciuto per noi in 16 anni del 32,7% oltre il livello tedesco. A dispetto di tutto ciò il sistema resta competitivo, difendendo la quota di mercato mondiale anche in presenza dello tsunami cinese. I distretti continuano a crescere oltre la media ma questi bacini di competenze e flessibilità oggi sono messi in discussione, perché in un mondo digitale la prossimità fisica conta fino ad un certo punto. D’altra parte, tra i punti di forza vi è proprio l’articolazione produttiva, con una miriade di Pmi formalmente impegnate sul mercato interno, in realtà esportatrici indirette attraverso medie imprese fortemente internazionalizzate, e persino più efficienti in media rispetto alle realtà di Francia e Germania. Il valore aggiunto manifatturiero rispetto al Pil risale al 16%, anche se il livello pre-cris i (17,5%) resta lontano. L’indice della produzione a fine 2017 era ancora 12 punti distante dalla media Ue, solo Grecia e Cipro fanno peggio. Gli ultimi due anni raccontano però un film diverso, e infatti ribasando gli indici al 2015 siamo in linea con gli altri.
Girando per le aziende sono poi visibili i cambiamenti avviati con Industria 4.0: tra carrelli agv, macchinari remotati su ipad, esoscheletri e robotica collaborativa, intere linee connesse e digitalizzate. Fenomeno cavalcato dai big, ma anche da una nuova generazione di Pmi innovative e start-up che inizia ad affacciarsi sul mercato. Transizione faticosa eppure possibile. Come accade a Lomazzo, nel parco tecnologico ComoNext, che già ospita 130 imprese. Tra produttori di grafene, biomateriali, esperti ict. Negli anni ’60, qui, il vecchio cotonificio ora riconvertito a incubatore occupava mille addetti. Cifra che a breve sarà raggiunta e superata.
Il primo segnale arriva dai telefoni. Che non squillano più.
Alla fine del 2008, in poche settimane per migliaia di aziende italiane il mercato sparisce, i clienti si defilano, anche ordini già piazzati sono cancellati.
Per l’allora quinta potenza industriale mondiale (ora settima), sesta nell’export (ora ottava), è uno shock mai sperimentato: i ricavi arretrano di 175 miliardi (-19%), l’utilizzo della capacità produttiva crolla di dieci punti al 65%, inizia l’impennata dei fallimenti (dai 6000 del 2008 ai 15mila del 2014), i pagamenti tra imprese si inchiodano, con i gravi ritardi triplicati al 16%.
La lunga crisi cancella quasi un quinto dell’apparato industriale e chi può, visto il crollo del mercato interno, si getta sull’export. Con effetti evidenti di sistema: in rapporto all’output industriale le vendite estere nel 2008 valevano il 36%, ora sfiorano il 50% mentre l’avanzo commerciale macina anno dopo anno nuovi record.
E adesso dove siamo?
Gli ultimi dati (Prometeia) indicano per il 2019 la chiusura del gap nei ricavi (in 10 anni intanto il gap cumulato è di mille miliardi di euro) , mentre in parallelo, per effetto della profonda selezione operata dalla crisi, si verifica un lieve ampliamento delle dimensioni medie, un recupero nei margini, un irrobustimento patrimoniale, una crescita nel peso delle qualifiche più elevate sia tra gli impiegati che tra gli operai. La ripresa è avviata e diventa via via più robusta nel 2017, anno della svolta dal lato degli investimenti grazie al piano Industria 4.0: mercato interno di robot e macchinari toccano il nuovo record storico.
Rinascita che tuttavia non risolve i principali nodi del sistema. Anche se l’attività innovativa resta in parte inespressa e sommersa, è evidente che qui l’Italia debba accelerare: Bosch e Siemens da sole brevettano quasi quanto l’intero nostro Paese. Tra i limiti vi è certamente la dimensione d’impresa. In un mercato diventato globale anche il presidio delle nicchie, punto di forza della nostra industria, richiede stazze crescenti e del resto tutti gli indicatori evidenziano performance mediamente superiori al lievitare della dimensione: il valore aggiunto per addetto di un “big” (oltre 250 addetti) è quasi triplo rispetto a quello di una micro-azienda.
Un problema, dato che nella manifattura la stazza media italiana è di poco più di nove addetti per impresa, in Germania 35. Un confronto diretto che ci vede perdenti sia in termini di produttività media (anche se passando dall’economia all’industria il gap si riduce) che di Clup, cresciuto per noi in 16 anni del 32,7% oltre il livello tedesco. A dispetto di tutto ciò il sistema resta competitivo, difendendo la quota di mercato mondiale anche in presenza dello tsunami cinese. I distretti continuano a crescere oltre la media ma questi bacini di competenze e flessibilità oggi sono messi in discussione, perché in un mondo digitale la prossimità fisica conta fino ad un certo punto. D’altra parte, tra i punti di forza vi è proprio l’articolazione produttiva, con una miriade di Pmi formalmente impegnate sul mercato interno, in realtà esportatrici indirette attraverso medie imprese fortemente internazionalizzate, e persino più efficienti in media rispetto alle realtà di Francia e Germania. Il valore aggiunto manifatturiero rispetto al Pil risale al 16%, anche se il livello pre-cris i (17,5%) resta lontano. L’indice della produzione a fine 2017 era ancora 12 punti distante dalla media Ue, solo Grecia e Cipro fanno peggio. Gli ultimi due anni raccontano però un film diverso, e infatti ribasando gli indici al 2015 siamo in linea con gli altri.
Girando per le aziende sono poi visibili i cambiamenti avviati con Industria 4.0: tra carrelli agv, macchinari remotati su ipad, esoscheletri e robotica collaborativa, intere linee connesse e digitalizzate. Fenomeno cavalcato dai big, ma anche da una nuova generazione di Pmi innovative e start-up che inizia ad affacciarsi sul mercato. Transizione faticosa eppure possibile. Come accade a Lomazzo, nel parco tecnologico ComoNext, che già ospita 130 imprese. Tra produttori di grafene, biomateriali, esperti ict. Negli anni ’60, qui, il vecchio cotonificio ora riconvertito a incubatore occupava mille addetti. Cifra che a breve sarà raggiunta e superata.
Il primo segnale arriva dai telefoni. Che non squillano più. Alla fine del 2008, in poche settimane per migliaia di aziende italiane il mercato sparisce, i clienti si defilano, anche ordini già piazzati sono cancellati. Per l’allora quinta potenza industriale mondiale (ora settima), sesta nell’export (ora settima), è uno shock mai sperimentato: i ricavi arretrano di 175 miliardi (-19%), l’utilizzo della capacità produttiva crolla di dieci punti al 65%, inizia l’impennata dei fallimenti (dai 6000 del 2008 ai 15mila del 2014), i pagamenti tra imprese si inchiodano, con i gravi ritardi triplicati al 16%.
La lunga crisi cancella quasi un quinto dell’apparato industriale e chi può, visto il crollo del mercato interno, si getta sull’export. Con effetti evidenti di sistema: in rapporto all’output industriale le vendite estere nel 2008 valevano il 36%, ora sfiorano il 50% mentre l’avanzo commerciale macina anno dopo anno nuovi record: nel ’65 l’export valeva il 14,3% del Pil, ora il livello è più che doppio. Gli ultimi dati (Prometeia) indicano per il 2019 la chiusura del gap nei ricavi (in 10 anni intanto il gap cumulato è di mille miliardi di euro) , mentre in parallelo, per effetto della profonda selezione operata dalla crisi, si verifica un lieve ampliamento delle dimensioni medie, un recupero nei margini, un irrobustimento patrimoniale, una crescita nel peso delle qualifiche più elevate sia tra gli impiegati che tra gli operai. La ripresa è avviata e diventa via via più robusta nel 2017, anno della svolta dal lato degli investimenti grazie al piano Industria 4.0: mercato interno di robot e macchinari toccano il nuovo record storico. Rinascita che tuttavia non risolve i principali nodi del sistema. Anche se l’attività innovativa resta in parte inespressa e sommersa, è evidente che qui l’Italia debba accelerare: Bosch e Siemens da sole brevettano quasi quanto l’intero nostro Paese. Tra i limiti vi è certamente la dimensione d’impresa. In un mercato globale anche il presidio delle nicchie, nostro punto di forza, richiede stazze crescenti. E del resto tutti gli indicatori evidenziano performance mediamente superiori al lievitare della dimensione: il valore aggiunto per addetto di un “big” (oltre 250 addetti) è quasi triplo rispetto a quello di una micro-azienda. Un problema, dato che nella manifattura la stazza media italiana è di poco più di nove addetti per impresa, in Germania 35. Confronto diretto che ci vede perdenti sia in termini di produttività media (anche se passando dall’economia all’industria il gap si riduce) che di Clup, cresciuto per noi in 16 anni del 32,7% oltre il livello tedesco. A dispetto di tutto ciò il sistema resta competitivo, difendendo la quota di mercato mondiale anche in presenza dello tsunami cinese. I distretti continuano a crescere oltre la media ma questi bacini di competenze e flessibilità oggi sono messi in discussione, perché in un mondo digitale la prossimità fisica conta fino ad un certo punto. D’altra parte, tra i punti di forza vi è proprio l’articolazione produttiva, con una miriade di Pmi formalmente impegnate sul mercato interno, in realtà esportatrici indirette attraverso medie imprese fortemente internazionalizzate, e persino più efficienti in media rispetto alle realtà di Francia e Germania. Il valore aggiunto manifatturiero rispetto al Pil risale al 16,4%, anche se il livello pre-crisi (17,5%) resta lontano. L’indice della produzione a fine 2017 era ancora 12 punti distante dalla media Ue, solo Grecia e Cipro fanno peggio. Gli ultimi due anni raccontano però un film diverso, e infatti ribasando gli indici al 2015 siamo in linea con gli altri. Girando per le aziende sono poi visibili i cambiamenti avviati con Industria 4.0: tra carrelli agv, macchinari remotati su ipad, esoscheletri e robotica collaborativa, linee connesse e digitalizzate. Fenomeno cavalcato dai big, ma anche da una nuova generazione di Pmi innovative e start-up che inizia ad affacciarsi sul mercato. Transizione faticosa eppure possibile. Come accade a Lomazzo, nel parco tecnologico ComoNext, che già ospita 130 imprese. Tra produttori di grafene, biomateriali, esperti ict.
Negli anni ’60, qui, il vecchio cotonificio ora riconvertito a spazio hi-tech occupava mille addetti. Cifra che a breve sarà raggiunta e superata.
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