Due piani paralleli di trattativa per spuntare nuovi margini di flessibilità con la prossima legge di Bilancio. Una strada che il ministro dell’Economia, Giovanni Tria si appresta a percorrere sondando già oggi il terreno con il suo omologo tedesco, Olaf Scholz in vista dell'Eurogruppo ed Ecofin di Lussemburgo del 21 e 22 giugno.
Nessun colloquio invece con il ministro francese Bruno Le Maire, poiché l’incontro di ieri è stato annullato da Tria in seguito alle tensioni tra Roma e Parigi sulla questione migranti. In primis, occorre evitare che scatti la correzione dello 0,3% del Pil (circa 5 miliardi) già in autunno, cui si aggiungerebbero altri 10 miliardi nel 2019.
Bruxelles giudica l’intervento necessario perché i saldi di finanza pubblica rientrino nel percorso di riduzione del deficit strutturale fissato dalle regole europee. E la Commissione è pronta a far scattare il conto alla rovescia che potrebbe condurre nella primavera del prossimo anno all’avvio della procedura per disavanzo eccessivo, originata dal mancato rispetto del criterio del debito. Sarebbe la conseguenza “naturale” del permanere di quel rischio di “deviazione significativa” rispetto ai target concordati evidenziato già nell’ottobre dello scorso anno. Un’opzione che - stante l’attuale difficile confronto in sede europea sull’emergenza migranti - il presidente della Commissione Jean Claude Juncker intende gestire in prima persona. La decisione finale sarà tutta politica.
Evidentemente su questo punto margini di trattativa potrebbero aprirsi, a fronte del reiterato impegno del governo a ridurre il debito quanto meno secondo il timing fissato dal Def: in questa direzione va la risoluzione al documento programmatico in via di approvazione in cui si ribadisce l’impegno a rispettare i saldi di finanza pubblica nel 2018 e 2019. In parallelo - e non disgiunta dal primo “tavolo” - si aprirà la discussione sui margini possibili da individuare relativamente al deficit del 2019. Prima di tutto, Bruxelles vorrà prendere visione della revisione del quadro macroeconomico che sarà affidato alla Nota di aggiornamento del Def di fine settembre. Se la stima di crescita indicata dal Def all’1,5% quest’anno e all’1,4% nel 2019 non subirà significative variazioni al ribasso, si potrebbe aprire uno spazio nei dintorni dello 0,4% del Pil sul deficit 2019. In tal modo, il nuovo target si attesterebbe all’1,2% rispetto allo 0,8% previsto dal Def a “politiche invariate”. Se così fosse, si dimezzerebbero le risorse per evitare che dal prossimo anno scattino le clausole Iva (cifrate al momento in 12,4 miliardi). In sostanza, metà delle clausole di salvaguardia verrebbe finanziata in deficit, in linea con quanto deciso dai governi Renzi e Gentiloni.
Le restanti risorse dovrebbero essere recuperate attraverso contestuali tagli alla spesa corrente e nuove entrate. Non per questo l’operazione si annuncia agevole. È vero che il primo provvedimento in agenda del governo sul fronte della politica economica dovrebbe essere a costo zero. Ma in autunno con la legge di Bilancio crescerà la pressione dei due “contraenti” del Governo perché si dia avvio alla prima tranche degli impegni contenuti nel programma, dal reddito di cittadinanza alla Flat tax. Se la “flessibilità” europea servirà a neutralizzare in parte le clausole Iva, tutti gli altri programmi di spesa o di riduzione delle tasse andranno finanziati. E qui il discorso si complica, perché dovranno essere predisposte coperture certe che non prevedano il ricorso a misure una tantum. Permane il rischio – che potrebbe complicare non poco l’intera trattativa – relativo alle stime di crescita. Le variabili internazionali, dalla guerra dei dazi al rallentamento in atto in Europa per finire con l’esaurirsi degli stimoli monetari della Bce, virano tutte in negativo. E per noi implicherebbero un peggioramento dei conti con effetti sulla discesa del debito.
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