La manovra correttiva? «Pare di sì - riflette dal M5S Laura Castelli, viceministra all’Economia -; se servirà saremo ovviamente in grado di farla». «Fantasie di Confindustria», ribatte dalla Lega il vicepremier Matteo Salvini. «Vedremo, devo parlare con Tria», chiosa il premier Giuseppe Conte. Tria che, dopo i primi incontri europei non si attende richieste di correzione.
Anche la cronaca di ieri disegna un governo a tre teste. Ma non è un fatto contingente, come mostra il primo mese di vita della squadra gialloverde. Su tutti gli snodi della politica, non solo economica, le posizioni nella maggioranza e nell’esecutivo sono differenziate. Ad allargare le distanze sono l’urgenza di ciascuno dei due azionisti di incassare qualcuna delle promesse elettorali, e l’esigenza del ministro dell’Economia Giovanni Tria di proseguire sul «percorso di riduzione del debito pubblico» (parole sue a Montecitorio). Tanto più con uno spread che dopo il martedì nero del 29 maggio viaggia costantemente molto sopra 200.
E non è solo un problema di annunci. Sul finora scarso coordinamento nelle agende è già inciampato il decreto su fisco e lavoro, slittato alla prossima settimana per la ricerca delle coperture. Ma ad allungarne i tempi di cottura sono anche le diverse priorità di Lega e M5S, figlie delle divergenti aspettative dei rispettivi elettorati. Le nuove regole sui contratti a termine e sulle delocalizzazioni, volute fortemente dal vicepremier Luigi Di Maio anche per riconquistare centralità in un dibattito dominato da Salvini con la questione migranti, creano più di un malumore fra quegli artigiani e piccoli imprenditori che sono il cuore pulsante del Carroccio al Centro Nord, oltre a incontrare la contrarietà piena degli industriali. «Con la sacrosanta lotta al precariato non bisogna però danneggiare lavoratori e imprese costringendoli al nero», ha sintetizzato ieri il ministro dell’Interno. In modo speculare, la freddezza a Cinque Stelle complica il decollo dell’accoppiata pace fiscale-Flat Tax, bandiera della Lega e attesa principe per il suo elettorato settentrionale : «Vedremo - ha spiegato Carla Ruocco, presidente M5S della commissione Finanze della Camera -, bisogna evitare che sia un condono».
L’amalgama, insomma, pare complicarsi quando dai «contratti di governo» si passa alla Gazzetta Ufficiale. Lunedì dovrebbe emergere il testo finale del decreto estivo, che ha già perso per strada le regole sui rider, parte del pacchetto lavoro e l’addio integrale a spesometro, redditometro e split payment. E l’assetto definitivo del capitolo fiscale sarà decisivo per mettere pace al mosaico delle coperture, per un provvedimento che non muove cifre enormi. Più complicato, allora, sarà mettere d’accordo i numeri più grandi, quelli che servono per gli interventi su pensioni e reddito di cittadinanza. Proprio su quest’ultimo tema si sono registrati i primi botta e risposta fra il leader M5S, che preme per partire «subito», e il titolare dell’Economia: Tria condivide l’importanza di una misura universale anti-esclusione (lo ha detto alla Camera), ma la colloca in un «orizzonte di legislatura» anche perché «per quest’anno i giochi sono quasi fatti».
Salvini e Di Maio non possono però permettersi una resa incondizionata alle ragioni dei conti pubblici. E sulle priorità dell’uno e dell’altro sottotraccia si consumano i contrasti. È evidente che in gioco c'è il consenso. E che i risultati delle amministrative rendono al momento la sfida molto più impellente per il Movimento. Per Salvini il bacino sono lavoratori e imprese del Centro Nord, che si avvantaggerebbero sia della riforma previdenziale con l'abbassamento dell’età sia del taglio delle aliquote. Obiettivi molto meno avvertiti da Di Maio, che ha il baricentro elettorale in un Sud dove più che i lavoratori e le imprese contano i disoccupati e gli indigenti. Il capo pentastellato appare schiacciato dalle competenze che gli derivano dalla guida di due ministeri impegnativi come Lavoro e Sviluppo, su cui gravano anche le crisi aziendali: dall’Ilva all’Alitalia passando per le imprese che attendono una risposta dal governo per evitare la chiusura. Di qui l’alternarsi dei due leader tra il reciproco spalleggiamento (vedi i vitalizi e l’immigrazione) e i tentativi di smarcarsi quando la posizione dell’uno penalizza l'altro. Un’altalena che per il Movimento è più rischiosa. Mentre la Lega non ha paura di tornare al voto, e anzi potrebbe essere tentata di soffiare sul fuoco per incassare il consenso maturato finora, Di Maio deve fare i conti con le divisioni interne e la consapevolezza che la fine dell’esperienza di governo potrebbe tradursi in un colpo pesante per la sua carriera politica.
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