Il realismo adottato dal premier britannico Theresa May ha un prezzo: l’unità del partito conservatore, ovvero la sua personale sopravvivenza politica e quella dell’esecutivo. Le dimissioni del ministro di Brexit David Davis sommate a quelle del ministro degli esteri Boris Johnson diventano il peggior guaio per Theresa May.
Peggiore anche della debolissima vittoria alle elezioni dello scorso anno che ebbe il sapore di sconfitta. Non basta riconoscere che le dimissioni di Davis fossero attese da tempo e che quelle di Boris Johnson fossero una minaccia immanente per ridimensionarne le conseguenze.
Theresa May scegliendo il brexiter d’antan Dominic Raab al posto di Davis e rispolverando il Cencelli - gettonatissimo anche Oltremanica - credeva di essersi “coperta” sul fronte degli euroscettici tories dopo aver chiaramente mostrato di optare per una strategia più morbida di quella che lei stessa aveva annunciato di volere perseguire e che David Davis fosse pronto a sostenere. Le dimissioni di Boris Johnson hanno ridotto in coriandoli la linea difensiva della signora May ed ora la prospettiva di una sfida alla leaderhip del partito e del governo è lo scenario dominante.
La saga della Brexit è così giunta a uno snodo-chiave, dopo due anni di defatiganti trattative intra-britanniche innescate dal referendum che annunciava la volontà popolare di uscire dall’Unione, ma non, ovviamente, i termini dell’addio. Fu Theresa May a voler interpretare nel modo più radicale il no degli inglesi a Bruxelles (Scozia e Ulster, lo ricordiamo, votarono a favore dell’Ue). Annunciò linee rosse invalicabili nel negoziato, tracciando il profilo di uno strappo con l’Europa che avrebbe lasciato Londra lontano anche da unione doganale e mercato interno. S’appiattì sulla linea dei brexiters ultrà che poi è stata abbandonata al vertice di Chequers di venerdì scorso.
Hanno ragione il ministro degli Esteri e quello per la Brexit: la strategia, non solo la tattica, di Downing street è cambiata, sferzata da realismo e pragmatismo, dinamiche a lungo fagocitate dall’ideologia dell’addio che ha tanto dominato la linea dell’esecutivo.
Il giro di walzer di Theresa - pronta ora a cedere, seppure parzialmente, anche sul fronte dell’unione doganale e del mercato interno - svelato a Chequers nasce tuttavia dalla spinta del mondo economico e finanziario, prima ancora che da quello della politica. Gli altolà dei produttori di auto, di agricoltori, dell’impresa manifatturiera hi-tech e naturalmente dei banchieri hanno finalmente trovato udienza all’uscio del governo. Le chance di una Brexit davvero morbida non sono mai state tanto elevate quanto in queste ore, ma annunciare l’alba di un’intesa è molto più di un azzardo. Per due motivi. In primo luogo i brexiters restano forti abbastanza per lanciare il guanto di sfida a Theresa May per la leadership del partito. Le dimissioni di David Davis andavano lette come il prologo a una possibile sollevazione. Quelle di Boris Johnson, ne sono la conferma.
Gli eurofobi hanno molte meno chance di qualche mese fa, ma non possono essere liquidati, soprattutto ora che il ministro degli Esteri ha messo in gioco sé stesso in una partita che potrebbe segnare la sua fine politica. In secondo luogo perché la proposta offerta da Londra a Bruxelles è base negoziale, ma non basta certo per chiudere la trattativa.
La visione di mercato interno e unione doganale adottata dalla Gran Bretagna ha ancora la forma di quel cherry picking dall’albero degli istituti comuni europei che i negoziatori Ue non ritengono accettabile.
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