In una popolazione che oggi ha circa 700.000 ultranovantenni, di cui 17.000 ultracentenari, e che nell’arco dei prossimi vent’anni ne conterà, rispettivamente, quasi il doppio e il triplo, il mestiere della (o del) badante non sembra certo a rischio di disoccupazione. Mentre oggi abbiamo in Italia poco meno di 400.000 badanti iscritte all’Inps - quasi una per ogni due “grandi vecchi” (ultranovantenni) – nel 2028, a proporzione immutata, ne avremmo 527.000 destinate a salire a 652.000 dopo altri dieci anni.
E se nel panorama ufficiale del lavoro domestico dovessimo anche includere la presenza delle colf, con le stesse proporzioni di oggi, si andrebbe dagli attuali 865.000 occupati, ai 1.150.000 mila del 2027 e ai 1.430.000 del 2037. E stiamo parlando “solo” di lavoratori in regola. Perché assumendo un rapporto di tre irregolari per ogni due regolarmente impiegati nell’attività domestica – così come prospettato dalle stime della Fondazione Moressa – si passerebbe da circa 2,2 milioni di colf e badanti, oggi, a oltre 3,5 milioni tra vent’anni.
Sul piano delle caratteristiche strutturali dei lavoratori domestici, i dati statistici confermano sia la persistente predominanza femminile, sia un’età relativamente “matura”; così come ribadiscono (pur segnalandone l’inatteso calo) la netta superiorità della componente straniera. È una presenza, quest’ultima, a cui va certamente riconosciuto un ruolo di primo piano quale supporto al welfare familiare in una popolazione sempre più invecchiata e indebolita nelle reti parentali, ma che non può tuttavia anche essere vista, con altrettanta certezza, come fondamentale contributo sul fronte dell’equilibrio dei conti pubblici. Sia perché titolare di redditi – e quindi di base imponibile fiscale e previdenziale – ancora relativamente modesti, sia (soprattutto) perché ancora fortemente caratterizzata da alte quote di lavoro irregolare.
Ad esempio, applicando al totale dei 1.200.000 lavoratori “al nero” stimati dalla Moressa i redditi medi percepiti da colf e badanti straniere irregolarmente coinvolte nel lavoro domestico in Lombardia – secondo i dati 2017 di Orim-Lombardia (Polis-Ismu) – si ottiene, pur con tutti i limiti derivanti dalla generalizzazione del dato lombardo, una stima di 910 milioni di euro sottratti mensilmente all’imposizione fiscale e previdenziale. Sono oltre 10 miliardi annui, circa il doppio della spesa ufficiale delle famiglie (dati Inps). E sul fronte degli incassi di tasse e contributi non sembra neppure che si possa realisticamente sperare in miglioramenti nel futuro. Sia perché i successi nel contrasto al lavoro sommerso sono tanto auspicabili quanto ancora nell’agenda delle buone intenzioni. Sia perché anche il processo di “italianizzazione” dei lavoratori domestici – che forse avrebbe potuto accrescere le capacità di controllo del fenomeno – è nei fatti un po’ illusorio.
Il dato riportato dalla Moressa sull’aumento degli italiani (+24,2% tra 2012 e 2017) e il corrispondente calo degli stranieri (-23,5%) si deve infatti per lo più all’ingente numero di colf/badanti approdate/i alla nostra cittadinanza. Il che, in un Paese che nel quinquennio 2013-2017 ha acquisito qualcosa come 757.000 nuovi cittadini, non è certo un fatto di cui stupirsi.
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