Oltre a Iva e spese indifferibili, sui conti iniziali della manovra d’autunno pesa la frenata della crescita e l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato. La base di partenza, prima di mettere mano a riforma fiscale, reddito di cittadinanza, pensioni, sanità o rinnovi del contratto del pubblico impiego, è quindi una partita da 22 miliardi di euro divisi fra Iva (12,4 miliardi), spese obbligatorie (almeno 3,5), spesa aggiuntiva per interessi (4 miliardi) e ricadute sul deficit della minore crescita (2,5 miliardi). Si tratta di 1,2 punti di Pil, che senza contromisure potrerebbero quindi il deficit 2019 al 2%. Non è questa l’intenzione di Tria, che ha avviato il confronto con la Ue per ottenere un obiettivo che non peggiori l’indebitamento strutturale ma non imponga misure giudicate troppo dure per un’economia già in rallentamento. Al centro del confronto ci sono quindi spazi fiscali intorno agli 11 miliardi, per dimezzare lo sforzo di partenza.
Riempite le caselle degli incarichi più pesanti e messe in strada le regole su lavoro e credito cooperativo, entra finalmente nel vivo la preparazione della manovra d’autunno, la partita chiave per il governo giallo-verde. La collocazione di Alessandro Rivera alla direzione generale del Tesoro e la conferma di Daniele Franco al vertice della Ragioneria hanno definito la squadra. Ma prima di decidere le strategie di gioco bisogna tracciare i confini del campo. E i numeri che prendono forma disegnano gli spazi reali a disposizione di riforma fiscale, reddito di cittadinanza, pensioni, incentivi al lavoro, spesa sanitaria e di tutti gli altri capitoli che premono alle porte del fortino dei conti.
Tanti fattori rendono decisivo l’appuntamento di settembre, e uno di questi è ancora una volta mister spread. Con la nota di aggiornamento al Def da presentare entro il 20 settembre si faranno i conti sulla spesa per interessi da mettere a preventivo per l’anno prossimo. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, quando è stato definito il Def tendenziale, il differenziale con i Bund era poco sopra i 120 punti, e saranno i numeri di settembre a decidere la differenza rispetto a quel preventivo. Oggi siamo a 233, e i calcoli ufficiali pesano il costo di 100 punti di rendimento fra i 3,6 e i 4,5 (Upb) miliardi di spesa aggiuntiva a seconda di come si distribuiscono sulla curva dei tassi. A giugno, dicono gli ultimi dati del Mef, il rendimento all’emissione del decennale è stato 117 punti sopra ai livelli di aprile, sui cinque anni la distanza è stata invece di 164 punti mentre sui 20 anni ci si è limitati a pagare 66 punti in più. Un’indicazione importante è attesa per domani, quando il Tesoro offrirà in asta la prima tranche (fino a 4 miliardi) di un nuovo Btp decennale con una cedola del 2,8%, poco sotto al 3% di giugno ma assai più in alto dell’1,83% di aprile. Ma la linea finale sarà tracciata a settembre, quando peraltro scadono poco meno di 24 miliardi di titoli.
La seconda variabile è legata alla frenata della crescita. Le ultime previsioni sul 2019 oscillano fra l’1% (Fmi) e l’1,1% (Ocse, commissione Ue e Upb). Senza un colpo di reni, siamo quindi almeno tre decimali sotto l’1,4% messo in calendario dal Def ereditato dal governo Gentiloni: la frenata dell’economia riduce le entrate fiscali e quindi aumenta il deficit, in una misura che i modelli statistici del Mef indicano nella metà. Tre decimali di crescita in meno, cioè, significherebbero uno 0,15% di deficit/Pil in più, in un conto che dovrà considerare anche gli effetti pro-crescita (un decimale di Pil) dei mancati aumenti Iva. Chiudono questo primo quadro i 12,4 miliardi (lo 0,65% del Pil) di aumenti Iva da bloccare e le spese obbligatorie che un calcolo prudenziale (un governo nuovo può bloccare qualche programma ereditato dal vecchio) colloca intorno ai 3,5 miliardi (0,2% del Pil).
Riassunto: solo per sminare le clausole Iva (12,4 miliardi), finanziare le spese obbligatorie (3,5) ed evitare che interessi sul debito (4) e minore crescita (2,5) gonfino il deficit servono 22,4 miliardi. A meno di non caricare tutto il conto sull’indebitamento netto portandolo al 2% dallo 0,8% programmato.
Ma non è questa l’intenzione di Tria, che mercoledì in Parlamento ha ricordato di aver già avviato il «dialogo» con Bruxelles per individuare un percorso di correzione non troppo pesante per un’economia in frenata. L’obiettivo dichiarato è quello di «non peggiorare» l’indebitamento netto fissato per quest’anno (1% lo strutturale), con uno sconto da sei decimali di Pil: si tratta di 11 miliardi, che al netto delle ricadute della complicata (e per ora impossibile da cifrare con precisione) contabilità europea sulla crescita potenziale, dimezzerebbero quindi lo sforzo iniziale. Su questa base, oltre all’avvio di tassa piatta, reddito di cittadinanza e pensioni preme anche la ripresa della spesa sanitaria, che secondo il contratto di governo dovrebbe ricominciare a salire rispetto al Pil e non solo in termini nominali. Senza contare il rinnovo dei contratti del pubblico impiego (quelli appena firmati scadono il 31 dicembre), che avrebbe bisogno di un nuovo stanziamento (diretto per gli statali, a carico degli enti territoriali per gli altri) dopo i circa cinque miliardi dell’ultima tornata . La ministra della Pa Giulia Bongiorno ha promesso venerdì ai sindacati di «spingere» in questa direzione. Ma in ogni caso serviranno almeno i soldi per pagare le indennità di vacanza contrattuale.
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