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Non solo il Morandi: negli Usa sono crollati 1062 ponti in 32 anni

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intervista

Non solo il Morandi: negli Usa sono crollati 1062 ponti in 32 anni

Il ponte Morandi di Genova, crollato lo scorso 14 agosto (Ansa)
Il ponte Morandi di Genova, crollato lo scorso 14 agosto (Ansa)

Tecniche di costruzione, utilizzo, manutenzione, politiche strategiche di viabilità, ma anche eventi imprevedibili. La vita di un ponte è legata a numerose variabili che, se sommate o mal combinate tra loro, possono portare talvolta al collasso della struttura. «È importante capire - spiega Marco Di Prisco, docente di Progetto di strutture al Politecnico di Milano – che l'ingegneria civile opera per la mitigazione del rischio, ma non esiste il rischio zero, in Italia, come nel mondo. Chi progetta, quindi, lavora con un metodo che accetta sempre una probabilità di rottura».

Ma come si misura il rischio e perché cadono i ponti?

Le motivazioni di un crollo possono essere le più varie. Distinguerei però un crollo avvenuto dopo almeno 20 o 30 anni, da un crollo che può avvenire durante la costruzione, o qualche tempo dopo. Nel secondo caso, normalmente c'è un errore progettuale di calcolo, oppure si è sbagliato non considerando delle fasi transitorie, oppure è intervenuto un problema legato alla geotecnica, cioè al terreno, come è successo recentemente in Sicilia. In questi casi i problemi si evidenziano nei primi anni di vita della infrastruttura. Quando gli anni trascorsi dalla costruzione sono molti, invece, iniziano ad apparire i due guai più pericolosi per qualunque ponte: da un lato l'incremento dei carichi, dall'altro il problema del degrado. Nel tempo, tutte le strutture tendono ad essere maggiormente caricate, ma la loro capacità resistente diminuisce. Dopo il noto incidente di Ronan Point avvenuto nel 1968 a Londra, quando un palazzo di circa una ventina di piani crollò per lo scoppio di una bombola di gas, l'ingegneria strutturale intuì l'esistenza del collasso progressivo, cioè un danno di molto sproporzionato rispetto all'evento.

Da allora, i progettisti lavorano per una vita utile della infrastruttura, accettando una certa probabilità di rottura, che per un ponte nuovo è tra il 10 alla meno 6 e il 10 alla meno 7. Poi, questo coefficiente di sicurezza viene aumentato perché le tecnologie costruttive, inevitabilmente, introducono dei difetti. Questo livello di rischio, però, non fa i conti con delle cause impreviste. È per questo che il Fib, la Federazione internazionale del calcestruzzo strutturale sta studiando un codice modello che possa servire da riferimento per tutti i codici internazionali, in relazione alle strutture in calcestruzzo armato e precompresso. L'ultimo codice modello, del 2010, ha introdotto il concetto della robustezza strutturale. Dall'incidente di Londra, quindi, si è arrivati nel 2010 alla teorizzazione di questo concetto, che consiste in qualcosa di molto semplice: davanti a una causa imprevista, bisogna fare in modo che la struttura sia in grado di rispondere con un effetto che è proporzionale alla causa che lo ingenera. Quindi un collasso locale non può ingenerare il collasso di un ponte.

Che cosa è successo dunque al ponte Morandi?

Le indagini in corso accerteranno le reali cause, ma certamente si è trattato di un collasso non legato a un carico massimo, quindi conseguente a un degrado. Nel ponte Morandi, probabilmente, c'erano fessure e distacchi che hanno incrementato i fenomeni ossidativi. E in quella situazione è molto difficile intervenire, perché andrebbe rimosso tutto il calcestruzzo per sostituire i cavi. Un problema, quello del degrado, non solo italiano: gli Stati Uniti hanno un patrimonio di 600mila ponti, contro i 46mila italiani ma in 32 anni hanno avuto ben 1062 collassi. Un numero non paragonabile al nostro.

Il problema è il calcestruzzo?

Assolutamente no. I ponti in calcestruzzo sono quelli che possono avere la migliore durata, ovviamente sfruttando tutto quello che dal 1960 ad oggi si è scoperto. Dal 1980 a oggi il calcestruzzo ha quadruplicato la sua capacità resistente: oggi, in laboratorio, siamo in grado creare calcestruzzi a 300 megapascal in compressione, quando l'acciaio normale da profili resiste nell'armamento 235. Chiaramente non si elimina la dissimmetria: cioè il materiale calcestruzzo resiste sempre tanto a compressione e poco a trazione. Per questo, insieme a un collega di Brescia, ho introdotto nel codice modello e anche nella normativa nazionale, il concetto di calcestruzzo fibro-rinforzato, cioè arricchito da fibre di varia natura, per dare al calcestruzzo la capacità di resistere, di mantenere il valore di sforzo di trazione vicino al megapascal, mantenendolo per un certo valore di apertura di fessure, in modo tale che non ci sia un crollo repentino ma che ci sia una certa duttilità.

Meglio l'acciaio o il calcestruzzo, dunque?

Non sarebbe corretto decidere di fare i ponti in un solo materiale. Le esigenze possono essere diverse. Comunque è importante dire che tutti i tiranti sono in acciaio: a volte sono protetti con il calcestruzzo, a volte tenuti a vista e protetti in superficie. L'importante è proteggere l'acciaio che è molto vulnerabile all'aggressione degli agenti atmosferici e al fuoco. Nel mondo infatti, si continua a costruire in calcestruzzo e il problema di manutenzione interessa entrambi i materiali. La giusta domanda da porsi oggi è: che cosa fare alla fine della vita prevista di una struttura? Oggi stiamo cercando di risolvere questo problema che interessa il mondo con il codice modello, ma la soluzione ancora non c'è.

Quali precauzioni usare per ridurre i rischi?

Oltre a un codice che suggerisca un comportamento avallato dal consenso della comunità scientifica, certamente una politica strategica urbanistica: diminuire il carico di alcune infrastrutture ne allunga la vita. Se si fosse fatta la Gronda a Genova, per esempio, il traffico pesante sarebbe stato deviato lì. Inoltre, è importante avere meccanismi resistenti paralleli che riescono a limitare il più possibile i danni di un evento non previsto: un ponte con un solo strallo, se questo viene lesionato, cade. Se gli stralli sono venti, il collasso non avviene.

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