Oltre 6 miliardi. Secondo tecnici ed esperti è la dote necessaria per avviare la riforma dei centri per l’impiego (2 miliardi) e introdurre la pensione di cittadinanza (più di 4 miliardi), prima tappa del percorso che dovrebbe portare al traguardo del reddito di cittadinanza, l’assegno di 780 euro mensili per chi, essendo in situazione di difficoltà, si trova sotto questa soglia di reddito. Al momento, in attesa di conoscere il quadro effettivo delle risorse disponibili con la manovra che sarà varata a metà ottobre sulla scia della Nota di aggiornamento al Def attesa per fine settembre, se ne starebbero cercando meno della metà, ovvero 2-2,5 miliardi, per dare un primo segnale soprattutto ai pensionati più poveri, sempreché non diventi prioritario far confluire un flusso consistente di risorse per rafforzare gli strumenti di sostegno collegati alle crisi aziendali.
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L’operazione “centri per l’impiego” potrebbe infatti slittare, sia per il nodo risorse (a meno che non si riescano a utilizzare i fondi Ue come spera il Governo), sia per la sua complessità, vista l’articolazione a livello regionale.
In ogni caso il ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, punta a dare un primo segnale con la prossima manovra e anche il premier, Giuseppe Conte, ha a più riprese ribadito che il reddito di cittadinanza resta una priorità per la prossima manovra. Resta da capire quale potrebbe essere la reale platea dei beneficiari di una pensione di cittadinanza che, almeno in parte, dovrebbe essere alimentata dalle maggiori entrate derivanti dal taglio delle cosiddette pensioni d’oro previsto dal discusso progetto di legge D’Uva-Molinari presentato da M5S e Lega alla Camera, su cui però è in atto un confronto nella stessa maggioranza per apportare alcune modifiche, per evitare che la stretta colpisca anche gli assegni sotto i 4mila euro mensili. Secondo recenti stime, i beneficiari di questa maggiorazione sociale sarebbero tre milioni e 430mila pensionati con più di 65 anni che oggi vivono con un assegno più basso, per un costo complessivo di 4,2 miliardi.
In attesa di capire quanto peserà sulla prossima legge di bilancio la variabile “spread” e di conoscere l’esito del confronto con Bruxelles sui nuovi spazi di flessibilità in termini di deficit utilizzabili, lo snodo chiave della manovra resta insomma quello dell’effettiva reperibilità di risorse del Governo. Anche perché gli obbiettivi da centrare sono costosi: dall’avvio della Flat tax al superamento della riforma delle pensioni targata Fornero con l’introduzione di quota 100.
C’è anche un’altra variabile, quella legata ai fondi per il piano straordinario di messa in sicurezza del Paese (infrastrutture, invasi e forse scuole) annunciato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti e confermato da Conte. Secondo palazzo Chigi le spese per questi interventi straordinari dovrebbero essere considerate fuori dai “vincoli” Ue o, in alternativa, dovrebbero consentire di allargare gli spazi di flessibilità utilizzabili, magari con il ricorso al meccanismo delle “clausole eccezionali”.
Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, resta prudente. Sul fronte del piano infrastrutturale, il responsabile del dicastero di via XX Settembre considera prioritario rendere spendibili i 150 miliardi per opere pubbliche già stanziati per i prossimi 15 anni e inglobati nel bilancio. Per Tria è indispensabile mandare poi un chiaro segnale a Bruxelles sulla reale intenzione del Governo di ridurre il debito pubblico, seppure a ritmi non eccessivamente sostenuti, visto anche il quadro macro che si presenta con una andamento della crescita al di sotto delle stime contenute nel Def presentato in primavera dall’esecutivo Gentiloni. Quanto alla flessibilità, l’idea del Tesoro sarebbe quella di concordare uno spazio di almeno 10-12 miliardi rallentando il percorso di deficit strutturale. Altrettante, o poco più, dovrebbero essere le risorse individuate autonomamente dal Governo attingendo a tre serbatoi: revisione delle tax expenditures, nuova fase di spending review e pace fiscale.
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