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Starbucks? No pasarán! Manifesto (fondamentalista) del caffè all’italiana

Nino Manfredi, storico  testimonial di Lavazza (Ansa)
Nino Manfredi, storico testimonial di Lavazza (Ansa)

«Puoi vendere ghiaccio agli eschimesi, se sai ascoltare gli eschimesi», recita un vecchio proverbio americano. Laggiù, negli Stati Uniti, sono bravissimi a vendere qualsiasi cosa a chiunque, hanno inventato il marketing moderno e per questo vogliamo loro un mondo di bene. A noi italiani due cose, fino a ieri, si erano guardati bene dal vendere: la pizza e il caffè. Perché in effetti di vendere ghiaccio agli eschimesi si trattava. Poi è arrivata Domino’s Pizza e adesso, in epoca di sovranismo imperante, a Milano approda pure Starbucks, la quintessenza del caffè all’americana. Sarà che hanno imparato ad ascoltarci.

Americani con l’«Italian sounding»
Parliamo di due colossi che hanno in altrettanti prodotti, fortemente ancorati all’identità del Bel Paese, quanto possono esserlo gli spaghetti e il mandolino, il loro core business. Due concept che gli americani hanno saputo vendere al mondo intero giocando sull’Italian sounding, sul fascino discreto della terra «dove ’l sì suona». E ci volevano giusto gli americani per vendere, da Tokyo a Rio de Janeiro, cappuccino e frappuccino mentre noi (che non siamo mica gli americani), primi tra le genti a esaltare il combinato disposto di latte e caffè, ci siamo ben guardati dall’esaltare su scala globale il potenziale commerciale delle nostre invenzioni baristiche, perché al fin della fiera resteremo sempre un popolo di santi, poeti e navigatori tutti terribilmente individualisti, troppo per fare squadra.

Tra la moka e James Joyce
L’Italia non ha un solo caffè, così come la sua storia è soprattutto storia di disfide, comuni, repubbliche, soldati di ventura, guelfi, ghibellini e regni territoriali. Ogni caffè è una scuola di pensiero, con i suoi miti e i suoi riti, tradizioni diverse che proprio nella diversità hanno un fattore di ricchezza. Quelle due sillabe magiche a Milano significano libertà di pensiero, amore per il confronto, emancipazione dalla superstizione, quegli stessi valori che erano la miscela de «Il Caffè» inteso come la rivista dei fratelli Verri, nel Settecento laboratorio dell’illuminismo di qua dalle Alpi. C’è una scuola piemontese del caffè, con esiti industriali molto importanti grazie a Lavazza e brand che hanno nella qualità la propria stella polare come Vergnano. Da quelle parti, dopo la guerra, nacque addirittura un indotto del caffè, con la mitica Bialetti e l’invenzione della moka, destinata a rivoluzionare il consumo della nostra bevanda calda per eccellenza. A Nordest c’è Illy, altro colosso industriale, altro gruppo che persegue coraggiosamente la strada della qualità, sfida che consiste nel mettere in tazzina una tradizione locale - quella di Trieste - che aveva riscaldato gli animi di gente come James Joyce.

Napoli, arte e leggende metropolitane
E poi c’è Napoli, città-mondo nella quale si confrontano e si incrociano diverse storie e altrettante tradizioni di caffè. Quella dei Borbone - tra i primissimi in Europa ad apprezzare la bevanda - e di un popolo che non dorme mai, la leggenda del «caffè sospeso» (usanza piuttosto dibattuta secondo la quale, chi ai piedi del Vesuvio è particolarmente felice rende grazie alla sorte entrando in un bar e pagando due espressi, il primo per sé e il secondo per chi verrà dopo di lui) e la caffettiera napoletana che il grande Eduardo De Filippo trasformerà in un pezzo di teatro. Anche da queste parti il culto ha messo radici industriali, con i volumi del marchio Kimbo, la fedeltà alla linea di Passalacqua, interessanti realtà emergenti come Caffè Borbone. E per certi versi artistiche, perché certi baristi napoletani non puoi definirli altrimenti che artisti.

Pensiero espresso
Quanto spazio occupa il caffè nel nostro immaginario collettivo? Chiunque di voi potrebbe rispondere per citazioni. Perché «il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?», si chiedeva Nino Manfredi, testimonial di Lavazza e, prima ancora, protagonista triste di Café Express. Chi ha qualche anno in più si ricorda le cavalcate in solitaria di Caballero, alla ricerca della mitica Carmencita nel Carosello Paulista. E poi la «tazzulella ’e café» dal potere taumaturgico di Pino Daniele e «’a ricetta di Cicerenella» cara a Fabrizio De André, quel No grazie, il caffè mi rende nervoso orgogliosamente interpretato dal napoletano atipico Lello Arena e Roberto Benigni, ambasciatore dell’Italia nel mondo che, per conto di un americano atipico (Jim Jarmusch), tira avanti a Coffee and Cigarettes. Non è retorica, ma pensiero espresso. Pensate a tutto questo assieme prima di fare un salto a Cordusio, dove apre il primo Starbucks italiano. E magari andateci lo stesso, perché la diversità è sempre arricchimento ma, sulla nostra identità di caffeinomani, gli americani «no pasarán». Oppure non ci andrete, perché il caffè è passione arabica, voi siete fondamentalisti, il vostro grido è stato, è e sarà sempre: «Passalacqua Akbar». O meglio ancora: Passalacqua al bar.

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