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Pensioni, rispunta lo stop all’adeguamento automatico dell’età di uscita

Nel menù della controriforma delle pensioni non c'è soltanto “quota 100”, ovvero la superderoga ai requisiti di vecchiaia (67 anni) e ritiro anticipato (43 anni e 3 mesi) previsti dalla legislazione vigente per consentire un'uscita a 62 anni e 38 mesi senza penalizzazioni. Si continua a parlare anche di congelamento di uno dei due stabilizzatori automatici della spesa, ovvero l'adeguamento per via amministrativa dei limiti di pensionamento alla speranza di vita. Se n'era discusso anche un anno fa, proprio di questi tempi, quando il governo Gentiloni stava per mandare alle Camere l'ultima legge di Bilancio della legislatura. Ma poi non se ne fece nulla, si decise di nominare due commissioni tecniche per studiare la materia sotto la presidenza Istat ma neppure quelle furono mai insediate. La politica, nonostante l'imminente campagna elettorale e il pressing sindacale, si fermò perché gli effetti di quel congelamento erano da paura. Che cosa farò adesso il governo gialloverde?

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Il salto della curva
I costi del blocco li aveva messi nero su bianco la Ragioneria generale dello Stato, nel consueto report sulla spesa di lungo periodo legata all'invecchiamento della popolazione. Ecco il verdetto di un anno fa: eventuali interventi di legge «diretti non tanto a sopprimere esplicitamente gli adeguamenti automatici ma a limitarli, differirli o dilazionarli, determinerebbero comunque un sostanziale indebolimento della complessiva strumentazione del sistema pensionistico italiano». Uno scenario proposto prevedeva l'ipotesi di congelamento permanente del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita, con la conseguenza che i livelli attuali per la vecchiaia, l'assegno sociale e l'anticipo pensionistico rimarrebbero invariati sine die.

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Unica eccezione, nel 2021, la vecchiaia passerebbe comunque a 67 anni in virtù di un clausola di salvaguardia introdotta con la riforma Monti-Fornero su precisa richiesta della Commissione europea e della Bce nel 2011: insomma i 67 anni resterebbero costanti negli anni successivi. Ebbene in questa circostanza la spesa per pensioni sul Pil crescerebbe «in dimensioni consistenti fino al 2021 con un profilo crescente che arriverebbe a circa 0,8 punti di Pil nel 2033». L'effetto cumulato è di 21 punti di Pil al 2060, vale a dire più di un terzo dei risparmi che nello stesso periodo avrebbero garantito l'insieme delle riforme varate dal 2004 (Maroni) al 2011 (Fornero). In un'intervista al Sole 24 Ore di un anno fa il presidente dell'Inps, Tito Boeri, aveva quantificato il blocco dei 67 anni dal 2021 in avanti in 141 miliardi di maggiore debito pensionistico implicito nei primi 14 anni di applicazione, ovvero entro il 2035.

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Il crollo degli assegni
Numeri che parlano da soli. Ma la Ragioneria andò oltre: «Il processo di elevamento dei requisiti minimi e il relativo meccanismo di adeguamento automatico» sulle pensioni sono «dei fondamentali parametri di valutazione dei sistemi pensionistici specie per i paesi con alto debito pubblico come l'Italia». Ciò non solo perché la previsione di requisiti minimi, come quelli sull'età, «è condizione irrinunciabile» per «la sostenibilità» del sistema, ma anche perché «costituisce la misura più efficace per sostenere il livello delle prestazioni».

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Insomma lo stop all'adeguamento automatico dell'età di uscita alla speranza di vita non solo comporterebbe un «significativo peggioramento del rapporto fra spesa e Pil» ma causerebbe anche «un abbattimento crescente nel tempo dei tassi di sostituzione», ovvero del rapporto tra l'ultima retribuzione e l'assegno Inps. In uno degli esempi proposti mantenendo fino al 2020 i 66 anni e 7 mesi per la vecchiaia e costante a 63 anni e 7 mesi il requisito per l'anticipo di chi ha maturato una pensione pari a 2,8 volte il minimo, la soppressione degli adeguamenti automatici abbatterebbe al termine del periodo di previsione i tassi di sostituzione fino al 12,8% (22,8% per i lavoratori autonomi).

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