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Dismissione del patrimonio immobiliare, ecco perché in Italia è…

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Dismissione del patrimonio immobiliare, ecco perché in Italia è così difficile

Un miraggio, o poco più. Da anni si prova a dismettere parti rilevanti del patrimonio immobiliare pubblico con risultati molto distanti dagli obiettivi di partenza. E ora il Governo prova a rilanciare: a fronte dei 600 milioni attesi per l’anno in corso, si dovrebbe proseguire con 640 e 600 milioni rispettivamente nel 2019 e 2020. Introiti che andrebbero ad aggiungersi ai 17 miliardi da realizzare nel 2019 attraverso un’operazione massiccia di «privatizzazione del patrimonio pubblico», afferma il ministro dell’Economia, Giovanni Tria nella lettera inviata il 13 novembre a Bruxelles.

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È la principale “clausola di salvaguardia” qualora – si legge nel testo - non si realizzasse appieno la crescita del Pil ipotizzata all’1,5 per cento, così da realizzare una riduzione del debito dal 131,2% cento del 2017 al 126% nel 2021.

Com’è andata finora? Il patrimonio immobiliare dello Stato vale 1.800 miliardi, di cui 700 miliardi immediatamente valorizzabili con incassi previsti in 25-30 miliardi a regime, si stimò nel settembre 2011 quando l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti provò ad accelerare sul fronte delle dismissioni per far fronte alla crisi. La previsione era si potesse in tal modo realizzare una riduzione strutturale del deficit di 9,8 miliardi. Dagli ultimi dati disponibili il valore patrimoniale degli immobili pubblici è di circa 283 miliardi.

Cifre imponenti, rimaste tali. Ancor prima, nel 2001 lo stesso Tremonti aveva avviato la stagione delle cartolarizzazioni. Nacquero le varie Scip, la prima per la cessione di beni di proprietà degli enti previdenziali, con un saldo sette anni dopo al netto delle spese sostenute pari a 1,3 miliardi. La seconda registrò vendite inferiori del 33,5% rispetto al Business Plan. Cifre non risolutive, soprattutto nel recente passato.

Pesano vincoli di varia natura, molti immobili sono di proprietà della Difesa (le caserme ad esempio), 43 mila risultano gestiti dall’Agenzia del Demanio, poi vi sono gli immobili gestiti dai Comuni soggetti a vincolo urbanistico. Del resto la stagione delle grandi vendite di Stato è da decenni alle nostre spalle. Tra il 1992 e il 2000 gli smobilizzi di imprese pubbliche hanno comportato introiti per circa 198mila miliardi delle vecchie lire, di cui 122mila miliardi per operazioni realizzate direttamente dal Tesoro, 56mila dall’Iri e 20 mila da Eni, Efim ed altri enti.

Il Tesoro entrò direttamente in campo privatizzando Telecom Italia e Seat, e incassò circa 24.500 miliardi. Percorso messo in moto nel 1992, l’anno della grave crisi finanziaria che comportò l’uscita della lira dal sistema dei cambi di allora, attraverso la trasformazione in società per azioni di Iri, Eni, Enel e Ina, e la successiva liquidazione dell’Efim, che poneva fine alla lunga stagione dello Stato imprenditore.

Il processo di vendita proseguì con la vendita della Sme e con una lunga serie di aziende prima sotto il controllo pubblico, tra cui Cirio, Parmalat e poi Alitalia. Se si analizzano le privatizzazioni gestite direttamente dal Tesoro, gli introiti netti dal 1994 al 2016 si attestano a 110 miliardi di euro. La frenata è del tutto evidente se si analizzano i dati della scorsa legislatura: non si è andati oltre la cessione del 35,3% di Poste (per incassi pari a 3,1 miliardi) e del 46,6% di Enav (828 milioni). Vi ha fatto seguito, tra le operazioni più rilevanti, la procedura con cui vengono cedute ad investitori istituzionali quote societarie particolarmente rilevanti, conclusa nel febbraio 2015 sul 5,74% della quota azionaria detenuta in Enel, il cui controvalore, pari a circa 2,1 miliardi, è affluito al Fondo di ammortamento dei titoli di Stato. Peraltro su Ferrovie lo stop arrivò proprio dal Pd, oltre che dai sindacati. Ora potrebbe rientrare in gioco Cdp? Attenzione perché già in occasione del ventilato passaggio dal Mef alla Cassa depositi e prestiti delle quote residue di Enav ed Eni, erano state sollevate obiezioni non da poco da Eurostat, che ventilava l’ipotesi di riclassificare Cdp all’interno del perimetro della Pa per operazioni assimilate a una sorta di partita di giro.

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